Calvario per aprire un negozio in Italia: servono 65 autorizzazioni

Che la burocrazia sia una zavorra di tutti i tipi per chi fa impresa è noto. Che costi in media all’anno dai 108mila euro per una piccola azienda ai 710mila euro per una di medie dimensioni è forse meno risaputo ma aiuta a rendere l’idea del problema. E che per affrontare tutti gli adempimenti il tempo necessario di lavoro di un collaboratore dedicato oscilli tra i 45 e i 190 giorni all’anno, è un’ulteriore conferma dell’assurdità della situazione. Ma poi se norme, regolamenti e dispositivi, spesso già di per sé complicati da interpretare, li tocchi con mano entrando cioè nella giungla che li circonda, si scopre di tutto. Ad esempio, che una procedura può trasformarsi strada facendo in un vero e proprio iter autorizzativo; o che l’efficienza della Pubblica amministrazione, tra carenze di personale degli enti, incompetenze diffuse, ritardi pazzeschi e limiti imposti da dissesti o predissesti finanziari, non lascia scampo praticamente a nessuno. Si capisce insomma perché il 60% degli operatori finanziari ritiene la burocrazia la causa principale della bassa attrattività nazionale nei confronti degli investitori esteri. E perché, come ha detto il presidente di Confindustria Salerno Andrea Prete all’assemblea pubblica di pochi giorni fa, «le imprese sono ostaggio del potere degli uffici», con una spesa calcolata da Ambrosetti in oltre 57 miliardi a carico dell’intero sistema imprenditoriale.

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Prete, però, ha fatto di più. Ha voluto misurare e quasi censire con i suoi collaboratori il numero degli adempimenti cui sono sottoposte le imprese, o almeno la maggior parte di esse, per dimostrare come la semplificazione dello scenario sia sempre più indispensabile. Non è stato il primo e probabilmente non sarà neanche l’ultimo a mettere il dito nella piaga con dati e numeri alla mano. Solo pochi mesi fa, ad esempio, l’Osservatorio Cna ha dimostrato che ci vogliono ben 65 passaggi burocratici per aprire un salone di acconciature (26 gli enti coinvolti, con i quali però bisogna interfacciarsi 39 volte complessivamente perché ce ne sono alcuni ai quali bisogna ricorrere più volte). Ma il dossier emerso dall’iniziativa dell’imprenditore salernitano colpisce dritto allo stomaco: in 22 pagine, fitte fitte, che spaziano dall’export all’ambiente, dalla privacy al lavoro, alla sicurezza, c’è l’elenco, nemmeno completo avverte il documento, di tutto ciò che attende un’impresa per rispettare le norme di legge nei settori di sua pertinenza. Una faticaccia vera e propria per chi non ha tutte le competenze necessarie (o le risorse per dotarsi di bravi collaboratori) ma che non mette in discussione la legittimità degli adempimenti, moltissimi dei quali a dir poco necessari. Si intuisce invece perché la loro applicazione diventa troppo spesso un percorso a ostacoli, dai tempi e dall’esito indefiniti. Proviamo a spiegare perché.

L’AMBIENTE
Il numero e la complessità dei procedimenti, delle autorizzazioni e degli obblighi da rispettare sono impressionanti, per quanto giusto e sacrosanto sia il dovere di non inquinare. Ma l’Aua, acronimo di Autorizzazione unica ambientale, che doveva semplificare il percorso per le industrie dall’impatto ambientale medio, sembra avere al contrario complicato ancor più le cose. I problemi per un’impresa iniziano quando deve presentare la sua istanza al Suap, lo Sportello unico delle attività produttive, del Comune di riferimento: è qui che la pratica dev’essere per legge protocollata. Se l’ufficio comunale non funziona o non ha il personale competente (e al Sud non è raro), l’iter si inabissa anche per dodici mesi. Se invece tutto fila liscio l’istanza approda in 3-4 mesi (dipende dal tipo di istanza) alla Provincia cui spetta il parere definitivo. Ma qui la strada torna a salire: servono i pareri di specifica competenza, dalla Regione all’Arpac, dall’Asi all’Ente idrico di riferimento, dall’Autorità di bacino agli enti gestori di depuratori. Ognuno di questi deve a sua volta coinvolgere i suoi uffici tecnici per l’istruttoria della pratica e fornire i pareri previsti. Ogni ente però prima di emetterli non rinuncia quasi mai ad una serie di richieste per così dire integrative dell’istanza originaria. Siamo in piena giungla: è accaduto che arrivino all’impresa richieste paradossali come raccogliere acque piovane e smaltirle come rifiuti; oppure installare enormi impianti di trattamento fumi per carichi inquinanti inesistenti. Come se non bastasse, alla famosa istanza va aggiunto un parere di conformità urbanistica dello stabilimento richiedente che si trasforma di fatto in una verifica di conformità edilizia. Se c’è una tettoia, ad esempio, realizzata in difformità alla concessione e oggetto di sanatoria non ancora definita, la pratica si blocca e l’autorizzazione non arriva mai. Quelli che dovevano essere pareri solo ambientali si trasformano in pareri urbanistici.

L’EXPORT
I documenti anche più comunemente adoperati nell’ambito delle operazioni commerciali con l’estero sono tanti: fattura commerciale, distinta di carico (entrambe emesse dal venditore), certificato di origine (alcuni Paesi chiedono un ulteriore visto camerale sul certificato rilasciato con inevitabile appesantimento dei tempi). Ma ce n’è uno, il cosiddetto Certificato EUR 1, che consente di abbattere o annullare i dazi dei Paesi importatori in regime di libero scambio con l’Ue, che sta trasformando in incubi i sonni delle imprese. Dal 22 gennaio prossimo infatti non sarà più possibile applicare l’attuale procedura di previdimazione dei certificati grazie alla quale è possibile il rilascio immediato del certificato stesso, contestualmente alla spedizione della merce. Tra poche settimane gli esportatori unico, vero asset vincente al momento per il Paese dovranno attendere l’istruttoria della Dogana per la verifica dei requisiti occorrenti all’export. Se sarà positiva si provvederà al rilascio del certificato. I tempi? L’Agenzia delle Dogane assicura che saranno contenuti, le imprese temono il contrario.

IL FISCO
Per tutte le imprese ci sono adempimenti mensili (Iva, modello intra acquisti-vendite, esterometro acquisti-vendite, F24 per le ritenute d’acconto); trimestrali (Lipe ed Enasarco se ci sono agenti di vendita); annuali (bilancio, nota integrativa più relazioni, modello unico, diritto annuale per le Camere di commercio, imposta di bollo e tassa di concessione governativa). A livello comunale poi bisogna fare i conti con gli adempimenti per pubblicità (anche per semplici targhe sui cancelli di ingesso all’azienda), passi carrabili e Imu. Il dossier di Salerno non lo dice ma l’Italia per pagare le tasse impiega 238 ore l’anno, 79 in più della media Ocse.

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.