Cari ristoratori, ecco i 10 motivi per i quali non trovate più camerieri e cuochi

La carenza di personale sta frenando la ripartenza di molti locali, con reciproci scambi di accuse tra imprenditori e lavoratori. Ma la risposta non è semplice o univoca. Proviamo a mettere ordine, grazie al contributo di chi del settore ha grande esperienza, da Valerio Capriotti e Giacomo Gironi fino a Matteo Musacci

Storici, sociologi e analisti economici si affannano a prevedere in quali settori la crisi globale dovuta alla pandemia sarà trasformativa. In quali ambiti insomma cambierà le regole del gioco e obbligherà i giocatori ad impegnarsi in una partita totalmente diversa da prima. Il mondo della ristorazione si avvia ad essere uno di questi campi? Gli allarmi stanno suonando in queste settimane e non riguardano tanto le chiusure che hanno messo a dura prova i bilanci delle aziende o la mancanza di turismo, non riguardano neppure la crisi economica e la ipotizzabile diminuzione del potere d’acquisto dei cittadini. No. La trasformazione avverrà, udite udite, a causa della mancanza di personale. Paradossale, no? Diffusi timori per un aumento della disoccupazione e invece uno dei principali settori economici nazionali soffre perché non trova addetti! Oltretutto il problema pare essere trasversale a livello europeo: con i dovuti distinguo i mercati spagnolo, francese, tedesco e perfino britannico sono perlopiù tutti sulla stessa barca. In Italia la crisi è conclamata: “La ristorazione prova a ripartire ma non ce la fa perché mancano all’appello 150mila addetti”, urla la FIPE – Federazione Italiana Pubblici Esercizi.

Intendiamoci, problemi di questa natura ci son sempre stati (specie alla vigilia delle stagioni estive) e la spada di Damocle del reperimento delle risorse umane oscilla sulla testa dell’universo HoReCa (Hotel \ Restaurant \ Catering) da anni e anni. Ma questa volta i nodi sembrano aver trovato il modo di venire al pettine tutti assieme. Inutile negare che il rischio di paralisi del settore è dietro l’angolo: difficoltà e stress per gli operatori sono al loro massimo. Questo proprio in un momento, la ripresa post pandemica, che vede la domanda scatenata, pronta a recuperare tutto il tempo perduto in un anno e mezzo di emergenza sanitaria: tutti vogliono andare al ristorante, ma nessuno vuole lavorarci.

Per cercare di dire qualcosa di nuovo rispetto a quanto si sente ripetutamente da settimane tra lamentele e rare proposte costruttive, abbiamo sentito un gruppo di addetti ai lavori composito e articolato. Siamo partiti ad esempio dalle start up italiane che provano a dare una risposta agli imprenditori della ristorazione a caccia di personale in sala o in cucina. “Scusa se non sono riuscito a rispondere per tutto il giorno ma siamo in una situazione incredibile: da quando hanno riaperto i dehors siamo inondati di richieste. Da zero a cento in tantissimo tempo”, dice Mattia Ferretti di JoJolly start up nata per combattere il mercato nero, le prestazioni illegali e il caporalato diffuso nel settore della ristorazione. “Siamo nati per aiutare i ristoratori a trovare persone extra in maniera rapida e offrire agli imprenditori la possibilità di regolarizzarle rapidamente. Da quando siamo nati abbiamo chiuso 8mila contratti e con la pandemia ci siamo specializzati anche in ricerca di rapporti fissi”. JoJolly è una tra le tante start up italiane che stanno cercando di offrire soluzioni al problema del momento. Le altre rispondono ai nomi di RestWorld e RistoCall e la crescita di questi soggetti testimonia quanto sentito sia il problema. Fino a ieri bene o male col passaparola l’extra per coprire un turno si trovava e l’emergenza si tamponava, oggi il vecchio ecosistema non basta più.

(leoni)

Per meglio raccontare uno scenario complicato, oltre alle giovani start up tecnologiche abbiamo sentito ristoratori, rappresentanti delle associazioni, docenti e uomini di sala. Di seguito abbiamo provato a raggruppare le loro chiavi di lettura per argomento semplificando gli stimoli racimolati in 10 tematiche qui elencate in ordine puramente casuale, non di importanza. A partire dal tema che più fa arrabbiare gli operatori: l’eccessiva presenza – a detta loro – delle misure assistenziali. 

1. LE MISURE ASSISTENZIALI

Naspi, cassa integrazione, reddito di cittadinanza. Il trittico oggi è lo spauracchio di molti operatori. Guardato con odio dagli imprenditori e considerato uno strumento di concorrenza sleale. “La dinamica delle chiusure e riaperture è stata decisiva in questo senso” ci spiega Matteo Musacci presidente dei giovani della FIPE “chi ha cassa integrazione o reddito di cittadinanza non rischia di perderlo per poi magari lavorare poche settimane e, in seguito a nuove chiusure, ritrovarsi nella difficoltà di ottenere di nuovo i sostegni”.

“Quando propongo 1200 euro giusto per iniziare ad un comis che non sa ancora fare nulla mi guardano male: prendono 800 euro di disoccupazione, il resto lo integrano con qualche extra e qualche aiuto della famiglia ed ecco che a quella cifra ci arrivano senza dover andare a lavorare tutti i giorni”, spiega Valerio Capriotti, uomo di sala navigato e oggi direttore di Baccano a pochi passi da Fontana di Trevi a Roma. “Se guardo anche alla mia carriera e ai sacrifici che ho fatto penso che oggi abbiamo l’unico stato in Occidente che incita i ragazzi a non lavorare e questo è un dramma per lo sviluppo”. La verità è che con lo scenario attuale a molte figure conviene in termini economici starsene alla finestra piuttosto che venire a lavorare: “Parlo con persone” ci spiega Giacomo Gironi – restaurant manager, consulente e formatore – che “prendevano 700 euro in busta più 700 al nero. Oggi ne prendono 1100 grazie alle misure assistenziali, al massimo accettano qualche lavoretto in nero nel weekend ma non di certo un contratto”.

2. L’ASPETTO PSICOLOGICO

Ma cosa ci azzecca la psicologia? Ci azzecca, ci azzecca. “Innanzitutto bisogna fare un distinguo: non esiste – non più del solito – un problema di reperimento delle risorse umane in cucina. Esiste un problema in sala. Perché? Perché a dispetto della narrativa degli ultimi anni, lavorare in sala è il vero mestiere faticoso, perché hai a che fare non coi tempi di cottura della carne ma con gli esseri umani e devi sempre farli sentire coinvolti, devi sempre essere di buon umore, devi interfacciarti con le persone. E questo è terribilmente usurante. Ecco perché è fondamentale sempre di più un supporto psicologico per il mondo della ristorazione in special modo per il mondo della sala”. A parlare è sempre Giacomo Gironi che mette sul piatto una prospettiva nuova: prima di sorprenderci che non si trova gente a servire ai tavoli dobbiamo fare i conti con quanto sia faticoso questo lavoro se fatto a dovere. E possiamo ipotizzare che le implicazioni “di testa” siano ancora cresciute in questo periodo storico inedito e peculiare. Con sempre meno persone capaci di mettersi in sintonia con la clientela. E forse non è un caso che Luca Lotterio, startupper che incontreremo nel prosieguo dell’inchiesta, ci tiene a sottolineare di essere laureato in Psicologia del benessere…

3. LA BUROCRAZIA

Un punto da non trascurare è quello burocratico. “Sburocratizzare” è il primo comandamento (di otto) emerso dai lavori della sezione Food del Forum Ambrosetti diramati nel rapporto “La Roadmap del futuro per il Food&Beverage” lo scorso 4 giugno. Le difficoltà negli ultimi anni si sono lievissimamente attenuate, ma non sono scomparse. Gli operatori tendono a non menzionare questo problema nelle loro preoccupazioni, ma è più per rassegnazione che per una reale risoluzione della questione. Siamo però in una fase storica molto particolare, con una serie di grandi e piccole riforme all’orizzonte che hanno il potenziale di cambiare l’assetto organizzativo del paese. Se questo non consentirà di ridurre e semplificare la burocrazia (non solo per quanto riguarda il mercato del lavoro, bensì per tutti gli adempimenti che riguardano l’universo della ristorazione), il settore perderà un treno importantissimo.

4. NUMERO DI PUBBLICI ESERCIZI

Si tende a stare sui problemi concreti di media e piccola scala trascurando i grandi numeri. Che invece sono molto molto importanti. Il numero più semplice da analizzare e che parecchio ci racconta è l’entità dei ristoranti e dei bar in Italia: siamo un paese che ospitava pre pandemia oltre 300 mila pubblici esercizi. Un’enormità. Non c’è nessun paese in Europa che ha numeri comparabili. Eppure la spesa pro capite in questi luoghi di consumo non è più alta che in Germania o in Francia, anzi. Questo cosa significa? Semplice: in Italia c’è una quantità smisurata di bar, pizzerie e ristoranti ma quasi tutti sgomitano e boccheggiano per stare in vita perché ci sono tantissimi operatori che si spartiscono un mercato non certo più ampio di quello degli altri paesi europei. Non sarebbe meglio, si chiedono in molti, un numero inferiore di esercizi ma più in salute, più strutturati, più capitalizzati e dunque maggiormente in grado di offrire prospettive di stipendio e di carriera ai collaboratori che a quel punto finalmente la smetterebbero di fuggire verso altri settori?

5. LE PERSONE HANNO CAMBIATO VITA

“La persona media che lavora nella ristorazione ha capito grazie al Covid che là fuori il mondo è tanto più bello e tanto più vario. Un mondo che non aveva mai avuto modo di sperimentare a causa di ritmi e orari disumani” continua ancora Luca Lotterio. “La gente” aggiunge ancora il ventisettenne CEO di RestWorld “ha imparato nuovi mestieri, ha scoperto nuovi lavori, nuovi interessi”. In molti si sono resi insomma conto, aggiunge Mattia Ferretti di JoJolly “che quella che conducevano prima semplicemente non era vita: niente weekend, mai una serata in famiglia, un Natale a casa ogni tre anni. Coi ristoranti chiusi hanno visto che guadagnavano lo stesso facendo magari i magazzinieri però stando a casa tutti i fine settimana, stando a casa la sera e facendo le ferie a piacimento: sono risorse che non ritorneranno più indietro”. Già, non ci pensano proprio!

“Per la prima volta in 25 anni di carriera io stesso ho assaporato la libertà. E guarda caso sono 25 anni che non vedo un periodo così buio per il reperimento di personale”, dice Valerio Capriotti di Baccano. Lo conferma anche Nicola Ultimo food & beverage manager dell’hotel Park Hyatt di Milano: “Bisogna decidersi di qui in avanti a dare più spazio alla sfera privata. Non è possibile che i giovani che decidono di lavorare nella ristorazione debbano rinunciare totalmente alle attività sociali che svolgono i loro coetanei”. 

Qui davvero le sembianze del cambiamento sembrano trasformative e definitive. Epocali. Le persone non torneranno sui loro passi. Serviranno nuovi addetti e non ci saranno grandi chance per convincere chi ha deciso di uscire dall’industria. Ma per raggiungere nuovi addetti servono delle condizioni di attrattività che sono difficilissime da creare.

6. STIPENDI POCO ALLETTANTI & COSTO DEL LAVORO

Siamo a metà dei nostri 10 punti, ma lo abbiamo già capito: la situazione è drammatica e si può invertire solo a fronte di un aumento significativo degli stipendi. Ecco perché l’entità delle paghe è una faccenda cruciale: gli addetti alla ristorazione devono guadagnare di più. “Oltre alla riduzione della tassazione e dei contributi, un aumento degli stipendi potrà avvenire soltanto grazie a migliori business plan da parte dei datori di lavoro” spiega Luca Lotterio che ci accende una lampadina sulla qualità della classe imprenditoriale che lampeggerà ancora in seguito. “Molti pubblici esercizi sono pensati in maniera vecchissima e in questo modo è impossibile attrarre i giovani e le loro ambizioni. Ovvio che si vada a Londra o in Australia”, dice Matteo Musacci, che aggiunge: “Non va dimenticato il tema del costo del lavoro” che sarà elevato anche altrove ma che in Italia è così anomalo da “favorire il lavoro nero e condizionare le scelte degli imprenditori”.

“Gli stipendi sono bassi e lo sfruttamento è un dato di fatto”, spiega Giacomo Gironi “ma è troppo facile dare addosso agli imprenditori. La realtà è che non c’è alfabetizzazione dell’imprenditore” quando si parla di formazione (e ne parleremo più in basso) bisognerebbe pensare a formare sì i dipendenti ma anche la proprietà “che spesso” continua Gironi “è fatta da gente che ha avuto i soldi in eredità da nonna e decide di aprire un ristorante”. In uno scenario così complicato, con costi alti e tassazione inaudita ci si salva solo con un livello altissimo di professionalità e lucidità da parte degli imprenditori. E non sempre è così.

7. POCHI STUDENTI,  POCHI IMMIGRATI, POCHI CAMERIERI

“Gli studenti fuori sede rappresentano una fetta significativa della forza lavoro” questo ci hanno detto quasi tutti gli operatori che abbiamo sentito. “E c’è anche da considerare” ci racconta Nicola Ultimo “che molte figure non accettano più di spostarsi da sud o dai piccoli centri per lavorare perché lo stipendio che riescono ad ottenere non compensa l’aumento del costo della vita nelle grandi città”. E così si scopre che la didattica a distanza, oltre a tante altre conseguenze, ha avuto anche quella di mettere in imbarazzo la ristorazione. Se le lezioni le segui da Palermo o gli esami li fai da Catania, finisce che non puoi fare più gli extra la sera o nel weekend per arrotondare a Milano o a Bologna. Sono decine di migliaia di figure che sono venute meno anche solo a causa di questa nuova configurazione sociale e organizzativa della vita studentesca.

8. LA QUESTIONE GENERAZIONALE

“Oggi paghiamo uno scotto generazionale. Oggi i giovani sono i figli dei camerieri degli anni Ottanta che venivano presi a calci in culo, che venivano mandati a fare quel mestiere come una punizione. Quella generazione è un forte disincentivo per i ragazzi di oggi. Molto difficile che un papà incoraggi un figlio a fare il cameriere”, spiega Valerio Capriotti, che chiude: “Torno a cercare personale, in questo momento me ne servono almeno 15”.

“Manca l’attrattività della mansione”, rincara la dose Luca Lotterio “nessuno ti dice: ‘Mio padre fa il cameriere, che figata!’. Il ruolo continuare ad essere considerato di secondo piano. E poi questa generazione ha oltretutto la dannosa utopia generata dall’abbuffata di programmi tv”. Insomma la generazione che in questi mesi è venuta meno (e che non ha alcuna intenzione di tornare a servire ai tavoli) è una generazione che faceva questo mestiere in parte vergognandosene o comunque non sostenuto dai genitori: abbastanza naturale che potendo si siano allontanati.

9. MANCANZA DI FORMAZIONE (MA NON DOVUNQUE)

“Occorre una rivalorizzazione degli Istituti Alberghieri, la maggior parte sono ormai solo accentratori di giovani disinteressati. E poi c’è un problema di formazione diffusa, anche gratuita. Un esempio? Io sono diventato imprenditore perché ho trovato sulla mia strada tantissimi corsi gratis per diventare imprenditore e quindi, anche se non era mia intenzione, sono diventato imprenditore”, ad affondare il dito nella piaga è ancora Luca Lotterio

“Altri paesi che fino a dieci anni fa mangiavano solo aringhe affumicate oggi investono decine di milioni l’anno in formazione alimentare, noi che siamo l’Italia trascuriamo questo aspetto. Ovvio che prima o poi questa anomalia genera conseguenze”, aggiunge Matteo Musacci di FIPE. Un bel punto di vista sulla formazione ce lo dà Chris Nulli che da qualche anno ha inventato Appetite For Disruption (A4D), un think tank che ha l’obiettivo di far crescere il mondo della ristorazione e si rivolge soprattutto ai player del fast casual, ovvero alle catene di qualità per capirci da Panino Giusto a Alice Pizza passando per Poke House o Pescaria. “In questo settore ci sono un po’ di differenze rispetto alla ristorazione indipendente o a conduzione familiare. Le risorse umane entrano con una prospettiva di carriera long term e dunque in testa all’agenda degli operatori c’è la formazione: occorrono risorse ben addestrate e che restino fedeli nel tempo. Non servono persone che portino piatti al tavolo e basta, ma che siano in grado di trasmettere i valori di un brand e trasferire l’esperienza. Ormai alcune realtà” continua Nulli “hanno strutturato delle vere academy interne e erogano formazione anche su temi complessi come gli applicativi tecnologici”. La percezione è netta: invece di continuare a snobbare le catene, la ristorazione indipendente (inclusa quella gastronomica) dovrebbe dare una approfondita occhiata a modelli organizzativi che appaiono ben più attrezzati (e sani) per rispondere alle emergenze e per restituire condizioni di lavoro più accettabili ai collaboratori.

10. PAURA DELLE NUOVE CHIUSURE

E chiudiamo la lista delle nostre 10 motivazioni a causa delle quali c’è una inedita crisi di reperimento delle risorse umane nel mondo della ristorazione, sottolineando una banalità: l’insicurezza non è una buona alleata. E purtroppo nel settore l’insicurezza giocoforza aleggia. E così anche se tra chi ha cambiato lavoro ci fosse qualcuno disposto a tornare nell’industria dell’Horeca, sarebbe comunque in questo specifico momento storico disincentivato da uno scenario che nel medio periodo resta nebuloso. Posso anche aver voglia di scommettere di nuovo sul mio ruolo da maitre o da sommellier, ma perché mollare il lavoro che mi sono trovato nel frattempo quando a ottobre si rischia di dover chiudere nuovamente i ristoranti? E così la pandemia che tutto ha cambiato, ancora volteggia sopra le teste del settore e lo farà per qualche mese.

(fotogramma)

In conclusione? Stanti queste condizioni in termini di burocrazia, affitti e costo del lavoro e in assenza di riforme profonde e cambiamenti strutturali, le strade siano due. La prima è una riduzione significativa del numero degli esercizi (con conseguenze occupazionali tutte da verificare) in modo che gli operatori superstiti possano contare su una clientela maggiore e su una manodopera più professionale, motivata, appassionata e ben remunerata. La seconda strada inevitabilmente scarica oneri aggiuntivi sul consumatore finale. Se vogliamo un mondo della ristorazione più sostenibile, insomma, dobbiamo prepararci a pagare molto – molto! – di più una pizza, un cocktail, un’uscita a cena, un pranzo in trattoria. Uno scenario in cui i consumi si riducono e si concentrano (uscire meno volte a settimana, ad esempio) e in cui i pubblici esercizi calano di numero. Quelli che rimarranno avranno modo di rispettare maggiormente dipendenti e fornitori, ma saranno assai più costosi per i consumatori. Chi individua altre strade possibili, faccia un cenno. Perché è il tempo di analizzare le soluzioni più che di lamentarsi delle contingenze. (Fonte)

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.