Controllare green pass è pubblico servizio (Cass. 34272/22)

Spintonare chi controlla i green pass è resistenza a incaricaot di pubblico servizio: per pubblico servizio deve infatti intendersi un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi anche di rango inferiore, ma caratterizzata dall’assenza dei poteri deliberativi, autoritativi e certificativi che ineriscono alla pubblica funzione; ciò che rileva è la prestazione in concreto esercitata, mentre non rilevano le (sole) qualifiche formali ed il rapporto di impiego con lo Stato o con altro ente pubblico.

Restano fuori dal perimetro così tracciato le mansioni d’ordine meramente esecutive e le prestazione d’opera materiale, il che equivale a dire che l’attività dell’incaricato di pubblico servizio dovrà avere quantomeno i caratteri della mansione di concetto, implicante un qualche potere decisionale, sia pure ridotto, ed un certo margine di autonomia.

Tali caratteri si rinvengono certamente nell’attività del titolare di delega in materia di controlli sulle certificazioni verdi, come del resto nel soggetto preposto alle verifiche degli accessi ad edifici pubblici.

Il sistema dei controlli in materia sanitaria, introdotti a fini di contenimento degli effetti della pandemia, trova disciplina, ratione temporis, nell’art. 1, comma 1, del d. 21 settembre 2021, n. 127 – convertito dalla L. 19 novembre 2021, n. 165 – recante misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening.

Eventuali pendenze penali sono tuttavia sempre riferibili a “comportamenti o atti concreti” che si assumono posti in essere dall’imputato o indagato e sono pertanto valutabili a sfavore dell’indagato / imputato, senza che ne derivi contrasto alcuno con il principio di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma 2 Cost., atteso che tale principio vieta di assumere la colpevolezza a base di qualsivoglia provvedimento, fino a quando essa non sia stata definitivamente accertata, ma non vieta affatto di trarre elementi di valutazione sulla personalità dell’accusato dal fatto obiettivo della pendenza, a suo carico, di altri procedimenti penali.

Corte di Cassazione

sez. VI penale

ud. 26 maggio 2022 (dep. 15 settembre 2022), n. 34272

1. Con l’ordinanza in epigrafe il Tribunale di Trieste ha rigettato il riesame avverso la ordinanza del Giudice per le indagini preliminari di Trieste del 7 febbraio 2022, con la quale era stata applicata a R.U. la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale, commesso il (omissis) .

Secondo la provvisoria imputazione, lo stesso, consigliere comunale presso il comune di Trieste, aveva dapprima spintonato l’impiegata comunale addetta alla verifica delle certificazioni verdi (c.d.”green pass”), rifiutando di esibire la propria nell’accedere ad una riunione consiliare e, successivamente, aveva spinto con forza, per divincolarsi dalla presa, gli agenti della Polizia locale intervenuti per allontanarlo, procurando loro lesioni personali.

Il Giudice per le indagini preliminari e, in termini adesivi, il Tribunale del riesame hanno desunto il pericolo di condotte reiterative:

– dalle note modali, marcatamente provocatorie, della condotta, che l’indagato stesso aveva ripreso e pubblicizzato in tempo reale attraverso una diretta sulla piattaforma “facebook”, per significare la propria ostinata contrarietà alla disciplina governativa di contenimento della emergenza sanitaria da Covid-19;

– da una analogo precedente, ispirato dalla stessa matrice ideologica, risalente al mese di gennaio 2022.

2. Con atto del difensore di fiducia, avv. FT, R. formula un motivo unico, ma cumulativo, di seguito sintetizzato nei limiti strettamente necessari alla motivazione, ai sensi dell’art. 173 disp.. att. c.p.p..

L’ordinanza impugnata sarebbe viziata da violazione e falsa applicazione di legge, in rapporto agli artt. 111 Cost., 310 c.p.p. in riferimento all’art. 299 c.p.p..

Dopo avere definito sproporzionato e viziato da una “interpretazione emozionale” dei fatti il provvedimento impugnato, la difesa pone l’accento sulle videoriprese girate dall’imputato, da cui emergerebbe una ricostruzione in parte diversa degli accadimenti e specificatamente che:

–il contatto con l’addetta alla verifica, che aveva tentato di sbarrare l’accesso a R. , era stato fugace e la stessa aveva solo simulato, per giunta con ritardo, di accusare dolore, avendo subito dopo ripreso la propria postazione all’ingresso della struttura, senza evidenziare traumi di alcun tipo;

– – il contegno degli agenti di polizia municipale era stato “violento e fuori luogo” avendo gli stessi portato via il ricorrente ammanettato, dopo avergli strappato di mano il cellulare;

– – R. si era limitato ad una mera resistenza passiva, essendosi divincolato, ma senza usare violenza diretta, contro i pubblici ufficiali suoi antagonisti.

E comunque:

– l’impiegata, addetta alla verifica delle certificazioni sanitarie, non rivestiva la qualifica di pubblico ufficiale nè di incaricata di pubblico servizio;

– il ricorrente non era tenuto alla esibizione del c.d. “green pass” in quanto consigliere comunale;

– la condotta andrebbe al più riqualificata nel reato di cui all’art. 388 c.p., ovvero nel reato di cui all’art. 650 c.p..

Sul piano delle esigenze, l’ordinanza ha valorizzato una precedente condanna, relativa ad analogo fatto commesso in precedenza, ma non accertato con sentenza irrevocabile.

Infine, la misura custodiale in essere non consente al soggetto la possibilità di lavorare.

3. Il procedimento è stato trattato nell’odierna udienza in camera di consiglio con le forme e con le modalità di cui all’art. 23, commi 8 e 9, del D.L. n. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati, da ultimo, dall’art. 16 del d. L. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito dalla L. 25 febbraio 2022, n. 15.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile per la genericità e manifesta infondatezza dei motivi.

La difesa reitera argomenti già compiutamente disattesi dal Tribunale del riesame, senza confrontarsi con le congrue motivazioni addotte da quei Giudici a fronte delle medesime censure.

2. In primis non ha pregio l’assunto per il quale non sarebbe integrato il reato di resistenza, perché l’impiegata comunale nei cui confronti R. ha tenuto le condotte aggressive non riveste la qualifica soggettiva a tal fine richiesta.

Il tema è di limitata rilevanza ai fini cautelari, dal momento che la condotta è stata indirizzata nei confronti di più agenti di polizia giudiziaria, la cui qualifica di pubblici ufficiali è, invece, indiscussa.

In ogni caso, i giudici di merito hanno correttamente argomentato che la donna fosse investita di tale qualifica, in forza di delega ricevuta dal datore di lavoro ai sensi dell’art. 13 del D.P.C.M. 17 giugno 2021.

L’esistenza di tale atto, attributivo degli stessi poteri del delegante – che la difesa non contesta, dolendosi soltanto della sua mancata esibizione – permette di riconoscere in capo alla impiegata la qualifica di incaricata di pubblico servizio.

Va premesso, al riguardo, che a norma dell’art. 358 c.p., per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi anche di rango inferiore, ma caratterizzata dall’assenza dei poteri deliberativi, autoritativi e certificativi che ineriscono alla pubblica funzione.

Le Sezioni Unite, da epoca risalente hanno sancito che “al fine di individuare se l’attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 c.p., è necessario verificare se questa sia o meno disciplinata da norme di diritto pubblico, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, distinguendosi poi – nell’ambito dell’attività definita pubblica sulla base di detto parametro oggettivo – la pubblica funzione dal pubblico servizio per la presenza (nell’una) o la mancanza (nell’altro) dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal comma 2 dell’art. 357 predetto (Sez. U n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, Rv. 211190). In tale linea interpretativa si è affermato che per l’attribuzione della qualità di incaricato di pubblico servizio occorre che l’attività concretamente esercitata dal soggetto sia assunta come propria dallo Stato o da altro ente pubblico, e che ne sia chiara la natura pubblicistica in quanto diretta a realizzare in via immediata le finalità dell’ente pubblico, concretandosi in un servizio rivolto alla generalità dei cittadini (Sez. 6, n. 2549 del 02/12/2003, dep. 2004, Marini, Rv. 228668).

Dunque, elemento essenziale della qualifica detta, secondo la impostazione oggettivistica prevalsa in giurisprudenza, è i dato della prestazione in concreto esercitata, mentre non rilevano le (sole) qualifiche formali ed il rapporto di impiego con lo Stato o con altro ente pubblico.

Restano fuori dal perimetro così tracciato le mansioni d’ordine meramente esecutive e le prestazione d’opera materiale, il che equivale a dire che l’attività dell’incaricato di pubblico servizio dovrà avere quantomeno i caratteri della mansione di concetto, implicante un qualche potere decisionale, sia pure ridotto, ed un certo margine di autonomia.

Tali caratteri si rinvengono certamente nell’attività del titolare di delega in materia di controlli sulle certificazioni verdi, come del resto nel soggetto preposto alle verifiche degli accessi ad edifici pubblici.

Il sistema dei controlli in materia sanitaria, introdotti a fini di contenimento degli effetti della pandemia, trova disciplina, ratione temporis, nell’art. 1, comma 1, del d. 21 settembre 2021, n. 127 – convertito dalla L. 19 novembre 2021, n. 165 – recante misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening.

Il comma 4 dell’indicato art. 1, in continuità con la pregressa decretazione d’urgenza sui medesimi temi, individua il soggetto preposto ai controlli nel datore di lavoro, per tale intendendo il dirigente apicale di ciascuna amministrazione o soggetto equivalente, a seconda del relativo ordinamento, e prevede che, in relazione alla dimensione delle strutture ed alla presenza di una o più’ sedi, egli possa delegare la predetta funzione, con atto scritto, a specifico personale, preferibilmente (ma non necessariamente) avente qualifica dirigenziale. È poi previsto che, nell’esercizio del medesimo potere, il datore impartisca le modalità attuative secondo le quali i soggetti dallo stesso incaricati provvedono ad effettuare materialmente le verifiche (siano esse costantemente attive o a campione); in relazione ai servizi forniti a favore dell’utenza, il datore deve inoltre predisporre tutte le misure contenitive stabilite dalle competenti autorità sanitarie e dagli eventuali protocolli d’intesa stipulati con le organizzazioni sindacali e ciò al fine di evitare che l’accesso agli uffici di utenti non tenuti ad esibire o a possedere il c.d. “green pass” possa implementare i rischi di contagio e propagazione della epidemia.

A sua volta, il personale preposto agli accessi, incaricato di mansioni più strettamente esecutive, svolge un’attività di concetto, siccome implicante la conoscenza della normativa da fare osservare, ed involgente profili, complementari o integrativi, di collaborazione nell’espletamento del delicato servizio di tutela della salute, avendo non solo il potere di verificare la regolarità delle certificazioni, ma anche di interdire al lavoratore sprovvisto di certificazione verde valida o che. si rifiuti di esibirla l’ingresso nella struttura, invitandolo ad allontanarsi, e di promuovere l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 9-quinquies, comma 8, D.L. n. 22 aprile 2021, n 52.

Dunque, un’attività ampiamente riconducibile nell’alveo della nozione di pubblico servizio, riconoscibile in capo alla impiegata comunale cui si contrappose l’indagato, in forza della delega ricevuta e comunque in relazione alle attività in concreto espletate.

3. Quanto alla deduzione difensiva secondo cui l’attività della impiegata sarebbe stata comunque illegittima, non essendo R.U. tenuto alla esibizione del certificato verde, siccome titolare di carica elettiva (consigliere comunale), l’assunto è manifestamente infondato.

Attraverso l’introduzione dell’art. 9-quinquies nel d. L. 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 giugno 2021, n. 87, l’art. 1,D.L. n. 127 del 2021 ha esteso a tutto il personale delle pubbliche amministrazioni, al personale delle Autorità amministrative indipendenti, ivi comprese la Commissione nazionale per la società e la borsa, e la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, della Banca d’Italia, nonché degli enti pubblici economici e degli organi di rilievo costituzionale, l’obbligo di possedere e di esibire, la certificazione verde COVID-19 (c.d. green pass) di cui all’art. 9, comma 2, del predetto decreto, quale condizione per l’accesso al luogo di lavoro; identico obbligo era posto a carico dei titolari di cariche elettive e di cariche istituzionali di vertice, per l’accesso ai luoghi in cui esercitassero le loro funzioni (comma 11), salvo il caso di esenzioni dalla campagna vaccinale evincibili da idonea certificazione medica rilasciata secondo i criteri definiti con circolare del Ministero della salute.

Tale obbligo era per certo vigente alla data dei fatti, essendo stata disposta la cessazione dello stato di emergenza solo con D.L. n. 24 marzo 2022, n. 24.

Era pertanto dovere del R. ottemperare all’obbligo di esibizione della certificazione richiestagli per l’accesso alla sala consiliare.

Nè la condotta della delegata ha esondato dai limiti, atteso che l’accertamento del possesso della carta verde può essere svolto all’accesso della struttura, a campione o a tappeto, con o senza l’ausilio di sistemi automatici, secondo l’indicata normativa, e nessuna disposizione prevede che la delega dell’operatore sia esibita all’atto del controllo quale condizione della legittimità del suo operato (e, a ben vedere, neppure risulta che la stessa fosse stata al momento richiesta in visione dal ricorrente).

4. Di contro, resta del tutto generica la richiesta di riqualificazione della condotta nei reati di cui agli artt. 388 c.p., e 650 cod..pen., trattandosi di fattispecie incriminatrici che rimandano a presupposti fattuali del tutto differenti, e comunque prescindenti dall’uso della violenza, che ha invece connotato la condotta dell’indagato.

5. L’ulteriore censura, fondata sulle risultanze delle videoriprese, aspira ad una rivisitazione degli elementi fattuali non consentita in questa sede.

Costituisce ius receptum che il ricorso per cassazione per vizio di motivazione del provvedimento del tribunale del riesame in ordine alla consistenza dei gravi indizi di colpevolezza consente al giudice di legittimità, in relazione alla peculiare natura del giudizio ed ai limiti che ad esso ineriscono, la sola verifica delle censure inerenti alla adeguatezza delle ragioni addotte dal giudice di merito ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie e non il controllo di quelle censure che, pur investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito. (Sez. 2, n. 27866 del 17/06/2019, Mazzelli, Rv. 276976; Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv. 215828).

Del resto, le deduzioni sulla natura meramente passiva della condotta tenuta dall’indagato, tale da far escludere la materialità oggettiva del reato di resistenza, è smentita dalla stessa narrazione dell’indagato, non potendosi ritenere tale l’atto di divincolarsi che sia causativo di lesioni personali verso il pubblico agente. Si è affermato al riguardo che, “ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 337 c.p., l’atto di divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria integra il requisito della violenza e non una condotta di mera resistenza passiva, quando non costituisce una reazione spontanea ed istintiva al compimento dell’atto del pubblico ufficiale, ma un vero e proprio impiego di forza diretto a neutralizzarne l’azione ed a sottrarsi alla presa, guadagnando la fuga” (Sez. 5, n. 8379 del 27/09/2013, dep. 2014, Rodrigo, Rv. 259043).

Alla stregua del quadro indiziario ricostruito dai giudici di merito, una tale finalità contrappositiva deve senz’altro ascriversi all’azione dell’indagato, siccome accompagnata da spintoni e diretta, più che a guadagnare la fuga, a permanere nei locali da cui lo stesso avrebbe dovuto essere allontanato.

6. Sul piano delle esigenze cautelari, nonostante l’intervenuta sostituzione della misura custodiale con quella del divieto di dimora nel comune di residenza, permane almeno in parte l’interesse dell’indagato a ricorrere, poiché egli pone in discussione in primis la ricorrenza del pericolo di condotte reiterative.

Sul punto, è manifestamente infondata la deduzione difensiva secondo la quale il Tribunale ha errato nell’attribuire rilevanza a precedenti condanne, non divenute irrevocabili.

È principio costante di questa Corte che, ai fini del giudizio sulla personalità, richiesto in materia cautelare dall’art. 274, lett. c), c.p.p., va tenuto conto anche delle eventuali pendenze penali, le quali, pur se non qualificabili come precedenti penali in senso stretto, sono tuttavia sempre riferibili a “comportamenti o atti concreti” che si assumono posti in essere dall’imputato o indagato e sono pertanto valutabili sotto tale profilo, sulla base del testuale tenore della suindicata disposizione normativa, senza che ne derivi contrasto alcuno con il principio di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma 2 Cost., atteso che tale principio vieta di assumere la colpevolezza a base di qualsivoglia provvedimento, fino a quando essa non sia stata definitivamente accertata, ma non vieta affatto di trarre elementi di valutazione sulla personalità dell’accusato dal fatto obiettivo della pendenza, a suo carico, di altri procedimenti penali (tra le tante, Sez. 1, n. 51030 del 06/06/2017, EI Tayeb, Rv. 271405; Sez. 6, n. 45934 del 22/10/2015, Perricciolo, Rv. 265069).

Sotto altro profilo occorre considerare che, in tema di misure cautelari personali, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, il requisito dell’attualità del pericolo previsto dall’art. 274, comma 1, lett. c), c.p.p.. non è equiparabile all’imminenza di specifiche opportunità di ricaduta nel delitto e richiede invece, da parte del giudice della cautela, una valutazione prognostica sulla possibilità di condotte reiterative, alla stregua di un’analisi accurata della fattispecie concreta, che tenga conto delle modalità realizzative della condotta, della personalità del soggetto e del contesto socio-ambientale, la quale deve essere tanto più approfondita quanto maggiore sia la distanza temporale dai fatti, ma non anche la previsione di specifiche occasioni di recidivanza (Sez. 3, n. 9041 del 15/02/2022, Gizzi, Rv. 282891; Sez. 5, n. 12869 del 20/01/2022, Iordachescu, Rv. 282991; Sez. 5, n. 1154 del 11/11/2021, dep. 2022, Magliulo, Rv. 282769).

Escluso, dunque, che si debbano individuare puntuali circostanze che possano indurre l’indagato alla commissione di ulteriori reati, il giudice del riesame deve, nondimeno, motivare le ragioni per cui permanga il rischio di commettere nuovi reati della spessa specie.

Nella vicenda al vaglio, senza illogicità l’ordinanza ha valorizzato la pervicacia dell’indagato e la dichiarata matrice ideologica della sua azione oppositiva, quali elementi atti a supportare una prognosi di ricaduta nel delitto; argomento esente da censure di illogicità manifesta ove si consideri che non sono venute meno, o almeno non del tutto, le prescrizioni limitative correlate alla pandemia.

Di contro, in ragione della intervenuta sostituzione della cautela, non può essere qui valutata, per carenza di interesse, la deduzione di incompatibilità della misura custodiale con le esigenze di lavoro dell’indagato.

7. Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché della somma, determinata in via equitativa nella misura di Euro tremila, in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186 del 13/06/2000).

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.