EDILIZIA: La mera qualifica di manovale, prima, e di muratore, poi, non è sufficiente per ottenere dall’INAIL un indennizzo per le multiple discopatie lombari che lo hanno colpito dopo anni e anni di lavoro nel settore edilizio

Cass. civ., sez. VI – L, 26 agosto 2021, n. 23505 Presidente Doronzo – Relatore Ponterio

Cass. civ., sez. VI – L, 26 agosto 2021, n. 23505

Presidente Doronzo – Relatore Ponterio

Rilevato che:

1. la Corte d’Appello di Palermo ha accolto l’appello dell’INAIL e, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto la domanda di D.F. volta al riconoscimento della malattia professionale contratta nell’attività di muratore e manovale; 2. la Corte territoriale ha dato atto della inclusione della patologia denunciata (discopatie lombari multiple) nel D.P.R. n. 1124 del 1965, tabelle allegate, ha ritenuto, tuttavia, che il lavoratore non avesse assolto all’onere di dimostrare di essere stato addetto alla lavorazione nociva, anch’essa tabellata e, specificamente a “lavorazioni di movimentazione manuale dei carichi svolte in modo non occasionale in assenza di ausili efficaci”; 3. l’allegazione del D. di “aver svolto attività lavorativa nel settore edilizio, dapprima con la mansione di manovale e successivamente come muratore… (che prevedeva) prevalentemente la posizione eretta e l’uso necessario di entrambi gli arti per sostenere e manovrare attrezzi da lavoro con movimenti continui che (avevano richiesto) un intenso stress e sforzo muscolare” non aveva trovato, secondo i giudici di appello, il necessario riscontro processuale; non era stata articolata alcuna prova testimoniale e la conferma probatoria di quelle allegazioni non poteva desumersi dalla documentazione in atti di mera ricognizione formale della qualifica e neppure dal fatto notorio utilizzato invece dal tribunale; 4. avverso tale sentenza D.F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi; l’INAIL ha resistito con controricorso; 5. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

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Considerato che:

6. con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione degli artt. 342,414 e 434 c.p.c., per avere la Corte di merito erroneamente negato l’inammissibilità dell’appello proposto dall’INAIL; 7. col secondo motivo si addebita alla sentenza la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5; 8. si sostiene che i giudici di appello abbiano errato nel non considerare che, in caso di malattia tabellata, come quella diagnosticata al lavoratore, questi è onerato solo della prova di sussistenza della malattia e dello svolgimento di mansioni rientranti nell’ambito delle lavorazioni nocive tabellate; in presenza di tali presupposti, vige la presunzione legale sull’origine professionale della malattia, spettando all’INAIL di fornire l’eventuale prova contraria; 9. si rileva che l’allegazione del lavoro svolto nel settore edilizio, come manovale e poi muratore, dal 1979, non era stata contestata dall’Istituto; 10. i motivi di ricorso risultano inammissibili; 11. il primo motivo è inammissibile perché formulato senza il rispetto degli oneri previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (a pena di improcedibilità del ricorso), e volti a porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti (Cass. SU, n. 8077/2012; SU 11/4/2012, n. 5698; Cass. SU 3/11/2011, n. 22726); le censure mosse dal ricorrente investono atti processuali del giudizio di merito (in particolare, il ricorso in appello) di cui si assume l’inammissibilità e che sono meramente richiamati ma non riprodotti, almeno per la parte strettamente d’interesse in questa sede, nè depositati unitamente al ricorso per cassazione; 12. neppure il secondo motivo può trovare accoglimento; 13. sulla distribuzione degli oneri di prova, i giudici di appello si sono conformati ai principi enunciati in sede di legittimità secondo cui, in tema di assicurazione contro le malattie professionali, la riconducibilità della patologia sofferta dal prestatore di lavoro alle previsioni di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, allegata tabella n. 4, esclude la necessità di provare l’esistenza del nesso di causalità tra la malattia contratta e l’attività professionale svolta, mentre nel caso in cui la malattia non rientri nella previsione tabellare, oppure non vi rientri l’attività lavorativa svolta o non sussistano tutti i presupposti richiesti dalla tabella per far rientrare l’attività stessa all’interno della sua previsione, l’esistenza del nesso di causalità deve essere provata dal prestatore assicurato secondo i criteri ordinari. In caso di contestazione, l’accertamento della riconducibilità della malattia alla previsione tabellare costituisce un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito (Cass. n. 27752 del 2009; Cass. n. 13024 del 2017); 14. nel caso di specie, la Corte d’appello non ha addebitato al lavoratore oneri di prova che non gravano sul medesimo, violando la presunzione legale posta dalla inclusione delle malattie e delle lavorazioni nocive nelle citate tabelle; bensì, ha ritenuto sfornita di prova, di cui era pacificamente onerato il lavoratore, l’allegazione sullo svolgimento della lavorazione nociva (lavorazioni di movimentazione manuale dei carichi svolte in modo non occasionale in assenza di ausili efficaci); ciò in quanto, nell’esercizio del prudente apprezzamento degli elementi probatori, ha giudicato inidonei al fine suddetto i documenti recanti la qualifica formale rivestita dall’appellato ed anche l’anamnesi lavorativa raccolta dal c.t.u., ed ha valutato le lacune probatorie non colmabili attraverso il ricorso al notorio; 15. non è quindi configurabile la dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., e le censure si dirigono inevitabilmente verso l’apprezzamento in fatto non censurabile in sede di legittimità, se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella specie neanche rispettati; 16. per le considerazioni svolte, il ricorso deve essere respinto; 17. le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo; 18. si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.