Marche, dopo il terremoto -500 imprese e 1500 posti di lavoro persi

Burocrazia, lungaggini e misure insufficienti: a quasi due anni dal primo sisma del centro Italia gli imprenditori del territorio spiegano cosa non sta funzionando nelle risposte prese finora dallo Stato e danno alcuni suggerimenti.

RIL_2679Entro il 29 giugno è previsto il voto finale del Senato per la conversione in legge del decreto terremoto, il primo atto sul tema del governo gialloverde. La commissione speciale ha presentato giovedì in aula il testo con le modifiche accolte, sono poche quelle che riguardano le imprese. A quasi due anni dalla prima scossa di terremoto nel Centro Italia, però, gli effetti del sisma sull’economia dei territori colpiti continuano a farsi sentire.

Serrande abbassate.Una recente indagine del Centro Studi Cna Marche rivela che nella Regione che ha subito più danni a causa del sisma sono circa 500 le imprese che hanno chiuso e non hanno più riaperto tra la fine del 2016 e il mese di marzo del 2018. Molte edicole, panetterie, macellerie, ma anche bar, alimentari e, soprattutto, aziende agricole (-242) sono scomparse. Insieme a queste il terremoto si è portato via 1500 posti di lavoro. Le conseguenze per il sistema produttivo ed economico, ma anche per il tessuto sociale dell’area sono pesantissime.

Non è tutto perduto. Nelle Marche, però, ci sono anche imprese, medie e piccole, per lo più a gestione familiare, che sono riuscite ad andare avanti o a riaprire e che hanno bisogno del sostegno dello Stato. Ma cosa chiedono? Investimenti sul turismo, sgravi fiscali per chi assume, agevolazioni e garanzie per l’accesso al credito e sugli interessi, l’avvio della ricostruzione – almeno quella leggera – e misure specifiche per fermare lo spopolamento della montagna, già in atto prima del sisma, ma che ora sta procedendo a velocità sostenuta. Negli 87 Comuni compresi nell’area del cratere marchigiano, tra il 2016 e il 2017 è stato registrato un calo di 2392 residenti in fuga dalle conseguenze del terremoto. Un altro punto sul quale sono tutti d’accordo è la necessità di far tornare in zona anche chi aveva le seconde case, spesso vero motore dell’economia turistica dell’area.

“Non ci serve vicinanza, abbiamo bisogno di concretezza” esordisce Eugenia Bianchi, 49 anni, proprietaria del bar Due Monti di Ussita (MC) che ha riaperto la sua attività il 30 settembre 2017. “I tempi per la delocalizzazione sono stati lunghissimi. Ci avevano promesso che avremmo riaperto a giugno, invece abbiamo perso tutta la stagione estiva. Quello che serve? Siamo stati sradicati e deportati. Ora bisogna mettere le persone nelle condizioni di tornare e lavorare”.

Di tasca propria. Eugenia  racconta che ha dovuto “fare debiti” per riaprire la sua attività: “Avevamo diritto a 45 metri quadri, abbiamo raggiunto i 75 a spese nostre perché lo Stato ti garantisce solo una superficie dell’80% in relazione alla metratura dell’attività originale”.A Castelsantangelo sul Nera la norcineria Alto Nera dovrebbe riaprire a breve al termine di un lungo iter per la delocalizzazione. Uno dei soci, Giulio Cianconi, ci spiega che anche loro hanno investito soldi propri “perché l’80% della superficie non era sufficiente”. “in attesa di riaprire qui – spiega Giulio – ci siamo spostati in affitto a Jesi, sostenendo spese ingenti. Quando fai un lavoro come il nostro non puoi interrompere la produzione altrimenti i clienti dopo un po’ vanno da un’altra parte”. Anche Lina Albani, titolare della Pasticceria Vissana e del panificio L’albero del Pane a Visso, racconta: “La pasticceria ha riaperto dopo quindici giorni dall’ultima scossa di ottobre perché ho chiamato gli ingegneri a mie spese. Per il panificio abbiamo aperto un mutuo, delocalizzato e abbiamo ripreso l’attività il 10 aprile del 2017. Ancora non so se mi rimborseranno oppure no. So che almeno io sono tornata a lavorare, mentre molti di quelli che hanno chiesto allo Stato la delocalizzazione stanno ancora aspettando. Devono togliere tanti vincoli burocratici per far ripartire le attività e poi cominciare a pensare alla ricostruzione. Qui hanno iniziato ora le demolizioni”.

Casa e lavoro. Benedetto Cesaretti è responsabile di produzione della Nerea, azienda di Castelsantangelo che produce l’omonima acqua: “Noi abbiamo 22 dipendenti, ma senza persone che vivono qui il territorio si impoverisce. Stiamo cercando di assumere un tecnico della zona, ma è difficilissimo. Quelle imprese, per lo più a gestione familiare, che lavoravano con turismo ed enogastronomia, erano l’humus di queste zone. Prima ancora delle casette avrebbero dovuto delocalizzare le attività. Ora siamo al paradosso di avere le casette, ma nessuno che viene ad abitarci. Senza lavoro chi torna qui? Bisognava prendere esempio da quanto fatto in Friuli”. Cesaretti spiega che per andare avanti deve esserci sì la volontà, ma da sola non basta: “Dopo le scosse di fine ottobre abbiamo avuto danni per un milione di euro, ma avevamo la capacità economica per fronteggiarli immediatamente e l’11 novembre eravamo già tornati in produzione. Non tutti possono farlo di tasca propria, per questo lo Stato deve dare risposte veloci e migliori. Ad esempio perché dare una superficie più piccola a chi delocalizza? Dovrebbero dare il 120%, non l’80 per invogliare le persone a non gettare la spugna”.

Marche, dopo il terremoto -500 imprese e 1500 posti di lavoro persi

Favorire gli investimenti. Oltre a chi abbassa le serrande, c’è anche chi smette di investire. Le imprese manifatturiere e dei servizi attive nei Comuni terremotati in dodici mesi hanno registrato un crollo degli investimenti del 22,5% e un calo della spesa per i consumi del 9,3%. Inoltre, il recente rapporto sull’economia regionale di Bankitalia mostra che i prestiti alle imprese nelle Marche sono in calo dello 0,5% (-4,4% alle piccole aziende) e in tutte e quattro le regioni colpite le aziende hanno registrato in media un calo del 7% del fatturato.

Secondo Roberto Di Mulo, proprietario dell’azienda agricola “Angolo di Paradiso” di Amandola (FM), non servono benefit una tantum, ma agevolazioni per l’accesso al credito e sostegno alle attività che vogliono investire: “Quando ti carichi di un mutuo, ammesso che te lo diano, alla fine del mese i soldi te li chiedono. Lo Stato deve aiutare le aziende a ottenere il credito, promettere il suo intervento in caso di bisogno”. Parallelamente, afferma, è necessario riportare le persone a vivere in montagna: “Dopo il sisma ad Amandola la popolazione si è ridotta del 30%. Se io aumento la produzione, ma le persone non ci sono, a chi vendo? Devo andare fuori, con tutti i costi e i rischi che questo comporta”.

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Un piano per le infrastrutture. Ci sono anche imprese che non sono state danneggiate dal sisma, ma che parlano di un abbandono da parte dello Stato che va avanti da molto prima del terremoto. La ditta Mancini Spa di Amandola progetta e produce impianti di macellazione, disosso e lavorazione delle carni dal 1985 e ha clienti in tutto il mondo. Per Silvia Mancini rimanere ad Amandola è davvero difficile: “Qui manca tutto: la linea telefonica salta al primo temporale, i collegamenti stradali sono pessimi, per fare 50 chilometri e arrivare a Fermo è un viaggio infinito. Abbiamo due aeroporti a un’ora di strada, ma i voli sono ridotti all’osso. Questi sono tutti costi in più per un’azienda. Per non parlare della ricerca del personale. Sappiamo che tra due anni avremo un pensionamento e ci siamo già messi a cercare perché è difficilissimo trovare figure specializzate. Senza un piano di interventi pubblici importanti, sfido chiunque a resistere qui”. (Fonte)

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.