Di che anni stiamo parlando?«Dal 1968, l’anno in cui, appena arrivato negli Stati Uniti, ho inventato la tecnologia che poi ha permesso di creare componenti elettronici più veloci, di dimensioni ridotte e in grado di stare su un pezzettino di silicio abbastanza piccolo da essere prodotto a basso costo. Il microprocessore, appunto».
Semplificando molto, un mini computer.«Sì, lo progettai quando lavoravo alla Intel».
Senza il microprocessore non sarebbero arrivati i telefonini.«Non solo nella loro forma più intelligente come l’iPhone, ma anche nelle versioni iniziali che avevano bisogno di un computer al loro interno per agganciarsi alla banda elettromagnetica mentre si spostavano. Il primo, un Motorola, usava il mio processore Z80».
Che anno era?«Il 1976, l’aveva realizzato la prima società che ho fondato, la Zilog».
Società che stava per costarle cara.«Lasciai Intel per far partire la Zilog. Per indurmi a rimanere mi minacciarono di cancellare il mio nome dalla storia dell’invenzione del microprocessore».
Fu Andy Grove, fondatore e presidente di Intel, a giurarle vendetta.«Sì sì, mi disse proprio: “Se te ne vai, tu sarai cancellato dalla storia”».
Come rispose?«Beh, ero ancora abbastanza giovane e avevo un certo rispetto per l’autorità dovuto al retaggio dell’educazione italiana. Ho pensato “ma che figlio di…”, ma non gliel’ho detto».
Cosa fa nel suo tempo libero?«Aeromodelli».
Siamo sempre sul tecnico.«È una passione che ho da quando avevo 11 anni. A 14 anni volevo progettare aerei e mi sono iscritto all’istituto tecnico per diventare perito aeronautico».
Per la gioia di suo padre, che insegnava filosofia. «Ci rimase male. Mi chiamava “piscia in fretta” perché ero impaziente di arrivare».
Alla fine ha avuto ragione lei. «Sì, quella scuola mi ha permesso di progettare il mio primo computer a 19 anni. Se non l’avessi fatta probabilmente non avrei inventato il microprocessore: all’università mi sono iscritto a fisica, e non a ingegneria, dopo l’esperienza all’Olivetti. E la fisica mi ha avvicinato ai semiconduttori».
A quel punto suo padre l’avrà perdonato.«In realtà aveva paura che avrei fatto fatica a laurearmi arrivando da un istituto tecnico. Voleva che continuassi a lavorare. Allora gli ho detto: “Senti papà, tu devi soltanto darmi da mangiare e un posto dove dormire. Per il resto mi arrangio io. Non ti chiederò una lira».
E ci è riuscito.«Ho fatto fisica in quattro anni. Anzi, un po’ meno di quattro anni. Quasi nessuno ci riesce. Ho dimostrato a mio padre che dopotutto anche uno che aveva frequentato l’istituto industriale Alessandro Rossi di Vicenza non era uno stupido».
Lei che padre è?«Ho lasciato che i miei tre figli capissero da soli cosa volevano fare. Avrei creato loro problemi se li avessi spinti nella stessa direzione che ho intrapreso io. Marzia, la più grande, ad esempio, è un’artista».
Li ha cresciuti negli Stati Uniti.«Sì, però parlano l’italiano perfettamente. Li abbiamo fatti studiare sia qui sia in Italia».
Pensa mai di tornare in Italia?«Ci vengo spesso, una o due volte all’anno, ma no, non ci vivrei. Non riuscirei più a lavorare con la mentalità che c’è lì».
Quale mentalità?«Come si fa a fare un lavoro e venire pagato dopo sei mesi o più? Ci sono piccoli imprenditori che sono falliti perché non venivano pagati dai loro clienti e di conseguenza non potevano pagare i loro impiegati. Non potrei mai aprire e gestire un’azienda in queste condizioni».[Si ferma. Io aspetto in silenzio che riprenda a parlare].«Quando si parte con un’avventura imprenditoriale servono tanti soldi. E in Italia le banche ti danno i soldi solo se hai già clienti e un business avviato. Così per realizzare un’idea nuova, come un microprocessore, ci vuole molto più tempo».[Si ferma ancora. E poi conclude]«Puoi anche avere le idee e l’opportunità di aver successo, ma in un contesto del genere ci sarà sempre qualcuno che arriva prima di te». (di Martina Pennisi)