I dati sono impressionanti: in soli quattordici anni la quota di giovani tra gli occupati è passata dal 20% al 11,6%. Il confronto con l’estero è impietoso
Tuttavia, come si sa nessun fenomeno economico è omogeneo, la storia che si dipana dall’inizio della grande crisi, dalla fine 2008 ad oggi, ha dei perdenti che sono più perdenti di altri: i giovani. In questi grafici, (dati Ocse), si nota come l’occupazione per classi d’età fosse composta, dal 2000 a oggi.
E qui, in un grafico probabilmente ancora più eloquente che mostra le percentuali occupazionali per generazioni: dai 15 ai 30 anni, i giovani. Quindi gli adulti, dai 30 ai 49 anni. E infine, in verde, gli over 50 anni, gli “anziani”.
In soli quattordici anni la quota di giovani tra gli occupati è passata dal 20% al 11,6%, quasi la metà, mentre nello stesso lasso di tempo la proporzioni di anziani è andata dal 23% al 32,7%. Si dirà che nel frattempo le riforme delle pensioni hanno trattenuto più ultra cinquantenni sul posto di lavoro e che anche la demografia ha avuto il proprio ruolo, diminuendo la percentuali di giovani sulla popolazione stessa.
Questo è stato vero fino allo scoppio della crisi economica, non dopo. Il grafico seguente mostra la proporzione tra i 20-24enni – il segmento più colpito dalla perdita di occupazione -, tra i lavoratori e la popolazione in generale.
Dal 2007, il numero di 20-24enni rispetto alla popolazione è rimasto lo stesso, smettendo di calare, probabilmente grazie all’immigrazione. La proporzione di giovani di questa età tra gli occupati, invece, ha continuato a diminuire, staccandosi dal trend.
Di ventenni ce ne sono, insomma, ma lavorano sempre meno. Si dirà che i giovani vanno di più all’università, che non lavorano perché studiano. No, invece: le persone immatricolate nelle università italiane sono in costante discesa, come confermano i dati del Ministero dell’Istruzione.
Il paragone con il resto d’Europa, poi, è piuttosto impietoso. In Francia, Germania, Regno Unito non solo la percentuale di giovani occupati è decisamente più alta, ma è più elevata anche la quota di giovani iscritti all’università.
La cosa più deprimente, probabilmente, è un’altra, però. L’Italia nel 2000 non solo era in linea con questi Stati, ma addirittura superava la Francia: erano il 7,2% contro il 7% i 20-24enni al lavoro sul totale degli occupati. Dopo quattordici anni il crollo ha colpito solo il nostro Paese, con un quasi dimezzamento che non è accaduto altrove.
Calo demografico? Sì, ma non solo. Il gap tra l’Italia e il resto d’Europa – in particolare con il Paese leader, la Germania – è aumentato anche per molti altri motivi. Alternanza scuola-lavoro, formazione professionale avanzata e specialistica fin dalle superiori, stage in azienda: al di là delle Alpi il lavoro per i giovani è più di una speranza, e così diventa quasi del 30% la differenza tra i tassi di occupazione dei 15-24enni italiani e quella dei coetanei tedeschi, 17,2% contro il 46,1% del Paese di Angela Merkel.
La Francia nel 2000 era in una situazione simile alla nostra: in termini di gap dalla Germania, oggi è a un livello anche migliore di allora. Non possiamo nemmeno più paragonarci ai cugini transalpini.
Il nostro è un problema molto serio: siamo il Paese con la spesa pensionistica più alta sul totale della spesa pubblica e non possiamo permetterci di avere sempre meno giovani al lavoro a pagare i contributi per il numero crescente di pensionati. Aumentare l’età pensionabile non potrà bastare, né cambiare i coefficienti in base alla durata della vita, o passare totalmente al sistema contributivo – cosa di per sè sacrosanta – se i contributi stessi sono sempre meno. “Una generazione perduta”, si dice parlando dei giovani italiani: più di un’espressione retorica, assomiglia a un’evidenza dolorosa.