Fatture: sono così pochi gli autonomi che lavorano gratis – o lo fanno a fronte di compensi tanto bassi da essere antieconomici – che la legge opera, in via automatica, una presunzione di onerosità di tutte le attività professionali. In buona sostanza, quando un autonomo svolge un incarico, il fisco già presume che, per esso, sia stato percepito un compenso.
Quanto è lecito e difendibile un comportamento del genere da parte del contribuente? Quanta libertà ha il fisco, in altri termini, di sindacare i compensi dichiarati dal professionista? La questione è stata più volte discussa nelle aule della Cassazione e l’orientamento che ne è uscito fuori è una via di mezzo, che certo non consente di ritenere l’esistenza di una totale libertà, per il lavoratore autonomo, di non fatturare determinate prestazioni schermandosi dietro lo scudo della gratuità. È stato infatti sostenuto dai supremi giudici [1] che, se un contribuente sostiene di aver svolto prestazioni a titolo gratuito o a un importo che l’ufficio ritiene di dover sindacare in quanto non congruo, è legittimo l’accertamento dell’Agenzia delle entrate che ha assoggettato a tassazione i compensi non dichiarati, essendosi in presenza di un comportamento manifestamente antieconomico. La linea di confine tra il lecito e l’illecito è, ovviamente, il caso concreto, la dimensione e l’importanza dell’attività, i rapporti tra il contribuente e il cliente, ma soprattutto la sistematicità con cui tale comportamento viene posto in essere. Ma è sempre bene non sottovalutare l’attenzione del fisco alle operazioni “sospette”.