Il 1° maggio del 1955 il venerabile papa Pio XII istituì la festa di “San Giuseppe artigiano” (oggi memoria di San Giuseppe lavoratore) per aiutare i lavoratori a non perdere di vista il senso cristiano del lavoro, così pienamente incarnato nell’umile falegname di Nazareth e glorioso padre putativo di Gesù.
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Già l’Antico Testamento era pieno di riferimenti al lavoro umano (“Mangerai del lavoro delle tue mani”, dice per esempio il Salmo 127) e il Nuovo – dove Dio è simboleggiato di volta in volta come vignaiolo, seminatore, pastore – completa la pedagogia divina sul significato del lavoro, indicandoci come sommo esempio l’opera silenziosa ma provvidenziale di Giuseppe, che con il lavoro delle sue mani assicurò il sostentamento a Gesù Bambino e alla Vergine Maria, (anche) così partecipando straordinariamente al disegno di salvezza. Scrive ancora Giovanni Paolo II, stavolta nella Redemptoris Custos: “Il lavoro umano e in particolare il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all’umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell’Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione”.
A Dio piacque che l’eterno Figlio venisse chiamato “il figlio del falegname” (Mt 13, 55). Lo stesso Gesù imparò il mestiere da Giuseppe e lo esercitò nel nascondimento, mentre cresceva in sapienza e grazia, fino all’inizio della sua attività pubblica. Nobilitò quindi enormemente il lavoro manuale, che nel mondo romano era considerato indegno (vedi Cicerone), affiancandolo in dignità al lavoro intellettuale e operando un’elevazione di entrambi: sempre Gesù esalta lo scriba umile che si fa “discepolo del Regno dei cieli” (Mt 13, 52) e gli Atti degli Apostoli ricordano che Lui “fece e insegnò”. Solo agendo secondo la volontà di Dio il lavoratore realizza la sua piena vocazione, volta anzitutto a guadagnare i beni celesti (Mt 6, 25-34), unico e vero fine ultimo. San Giuseppe lo comprese. E le parole di Paolo VI su di lui ci aiutano a seguire il suo santo esempio: “San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini. San Giuseppe è la prova che per essere buoni e autentici seguaci di Cristo non occorrono ‘grandi cose’, ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere e autentiche”. (Fonte)