AMBIENTE: Per combattere l’inquinamento la natura ha i suoi trucchi

aranceINQUINAMENTO, emissioni di gas serra o CO2 non sono “amici” dell’ambiente e sono dannosi per uomo e natura. Ma è proprio da animali e piante che possono arrivare le soluzioni a questi problemi. O almeno è la strada che stanno sperimentando numerosi ricercatori universitari in tutto il mondo. Ne è un esempio il lavoro svolto da un gruppo di scienziati della Flinders University in Australia, con la collaborazione di altri atenei europei e americani. I ricercatori sono riusciti a utilizzare due sostanze presenti nell’ambiente in grande quantità – lo zolfo derivante dall’industria del petrolio e il limonene che si trova nella buccia delle arance ed è uno “scarto” del settore degli agrumi – per sintetizzare il polisolfuro zolfo-limonene, una sostanza che sarebbe in grado di assorbire il mercurio presente nel suolo e nell’acqua. Non solo. Ne può anche rilevare la presenza perché in caso positivo cambia colore, passando dal rosso scuro al giallo. Le applicazioni future potrebbero essere molte e importanti. Qualora vi fossero contaminazioni di mercurio il polisolfuro zolfo-limonene introdotto nelle tubazioni riuscirebbe a bonificare l’acqua dell’acquedotto, si potrebbe usare nel trattamento dei rifiuti o addirittura, riuscendo a produrne grandi quantità, anche per eliminare questo pericoloso metallo pesante da tratti di mare od oceani inquinati.

Nella cura dell’ambiente, anche insetti e crostacei fanno la loro parte: dal loro esoscheletro, infatti, si può ottenere un fertilizzante organico, ma insolubile, biodegradabile e innocuo per l’essere umano, in grado di rigenerare il terreno sovrasfruttato. A crearlo è stato un gruppo di ricercatori del Centro di Biotecnologie vegetali e Genomica dell’UPM – Universidad Politécnica de Madrid, in collaborazione con altri ricercatori dell’Università di Amburgo. Durante gli esperimenti gli scienziati hanno rilevato, nelle piante coltivate e trattate con questo fertilizzante, un aumento del 10% del contenuto di azoto e carbonio e una maggiore estensione delle radici, che le rendeva più robuste e resistenti.

Le batterie al rabarbaro per conservare l’energia pulita. La produzione dienergia rinnovabile varia durante il giorno e a seconda dei periodi dell’anno: quella solare non è producibile di notte, mentre per l’eolico c’è bisogno della “forza” del vento. Esiste quindi la necessità di accumularla nei momenti di surplus (quando se ne produce troppa) per poterla poi riutilizzare quando gli impianti sono inattivi o c’è maggiore richiesta. La soluzione per farlo è quella di usare sistemi di accumulo a batteria, ma ci sono dei limiti derivanti dai costi elevati, dall’efficienza limitata e soprattutto dall’impatto sull’ambiente perché le batterie sono realizzate usando al loro interno metalli tossici. Per questo la ricerca punta a trovare alternative più economiche, efficienti ed ecologiche: tra queste le batterie al rabarbaro, che sono prive di metallo, versatili e a basso impatto ambientale. Inoltre possono sopportare molti cicli di ricarica senza degradarsi. Questa nuova tecnologia, sviluppata dall’Università di Harvard si basa sul chinone, una molecola prodotta dalle piante durante la fotosintesi che può essere quindi estratta anche dal rabarbaro. L’anodo, o elettrodo negativo, della batteria è costituito da chinoni diluiti in acido solforico, mentre l’altra estremità, il catodo positivo, sfrutta le proprietà del bromo (architettura chimica basata sull’idrogeno bromuro). L’energia è stoccata in serbatoi chimici esterni, riempiti con una soluzione liquida contenente elettroliti che hanno la capacità di “catturare” le cariche elettriche. Green Energy Storage ha stipulato con Harvard un accordo di licenza esclusiva per l’Europa e, a detta dell’azienda italiana, entro la metà del 2016 avranno batterie con potenza superiore al kilowatt. Contano di entrare sul mercato per il 2017, inizialmente in ambito domestico, quindi in quello industriale quando saranno disponibili batterie di dimensioni maggiori, in grado di stoccare quantità superiori di energia.

I vermi distruggi polistirolo. La plastica, se non raccolta e smaltita correttamente, si accumula sul suolo e in mare, e genera un impatto molto negativo sull’ambiente in quanto non è biodegradabile. I ricercatori sono all’opera per trovare soluzioni al problema. Tra questi un gruppo di ingegneri della Stanford University in California con alcuni colleghi della Beihang University di Pechino: hanno scoperto come i vermi del cibo siano in grado di decomporre per esempio il polistirolo. In uno degli esperimenti ne sono stati utilizzati un centinaio che ne hanno “digerito” dai 34 ai 39 milligrammi al giorno pur rimanendo in buone condizioni di salute. Ovviamente siamo agli esordi, ma questa scoperta è importante per arrivare un giorno a estrarre gli enzimi responsabili di questa degradazione per poterli poi usare nello smaltimento di vari materiali plastici. La ricerca si sta ampliando per scoprire se esistono larve di insetti in grado di digerire anche materiali come il polipropilene e lebioplastiche nonché organismi marini che facciano l’equivalente, ma per quanto concerne la plastica presente in mari e oceani.

Le mucche mangiano meglio e inquinano meno. Secondo uno studio condotto da due ricercatori del gruppo di Ecodinamica dell’Università di Siena – Dario Caro e Simone Bastianoni – in collaborazione con alcuni colleghi della Stanford University e dell’Università della California, il bestiame è responsabile del 10% delle emissioni globali di gas a effetto serra. Infatti rilascia metano, attraverso i microrganismi partecipi nel processo di digestione animale, e protossido di azoto con la decomposizione del letame. Dalla ricerca, condotta su 11 specie diverse e coinvolgendo 237 paesi, emerge che in circa cinquant’anni tali emissioni sono aumentate del 51%. I bovini ne producono il 74% a livello globale. Questo è dovuto sia all’abbondanza di mucche da latte, ma anche al fatto che i bovini da carne, rispetto per esempio a pecore, bufali, maiali e capre, emettono una maggiore quantità di metano e protossido di azoto. Ecco perché alcune realtà del settore e aziende che si occupano di ricerca stanno sperimentando mangimi o rimedi “speciali” per ridurre le emissioni di metano generate dal processo digestivo. Tra questi Starbucks di Tokyo, che ha avuto l’idea di recuperare i fondi del caffè per produrre alimenti proteici per le mucche, in Germania è stata ideata una pillola da introdurre nella dieta bovina e nel Galles si stanno sperimentando gli effetti benefici dell’aglio. Non ultimo un additivo alimentare che agisce direttamente sui batteri responsabili della produzione di metano e permette di ridurre la produzione e il rilascio di gas fino al 60%. A realizzarlo DSM, una multinazionale olandese che opera nei settori della scienza della vita e dei materiali, in collaborazione con la Penn (Pennsylvania) State University. Questo “integratore” in polvere è in fase di testperché, a detta dell’azienda, è necessario verificare la presenza di effetti indesiderati sugli animali e certificare che sia la carne sia il latte non vengano contaminati in alcun modo. La ricerca continua e DSM prevede che il prodotto possa essere commercializzato entro il 2018.

di MARIA LUISA ROMITI

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.