PROFESSIONE: Addio a Zaha Hadid, la Visionaria assoluta dell’architettura contemporanea

HadidZaha Hadid, per chi l’amava, era il più grande genio dell’architettura contemporanea. Altri la odiavano perché la ritenevano cerebrale, antipatica, snob, fissata su un’idea dell’architettura astratta e involuta. Quando qualcuno le faceva notare «ma questo non potrà mai essere un edificio», di solito la risposta era implacabile: «No. È un concetto». Dunque, è già realtà (poi, di solito, veniva anche realizzato). Vi accorgerete, leggendo queste poche righe, da che parte stia io.

Ora che è morta (per un attacco di cuore all’ospedale di Miami, dov’era ricoverata per le complicazioni di una bronchite), è facile anche troppo associare emotivamente la sua scomparsa a quella di David Bowie: poche altre persone sono state così capaci di cambiare le regole e i paradigmi della loro arte, reinventando totalmente il campo stesso del gioco. E nel caso di Hadid la cosa è evidentissima perché il campo era, appunto, l’idea stessa di spazio che abitiamo nei nostri giorni. Irachena di nascita, 65 anni, le opere di Hadid – spesso, a volte, anche i pochi progetti non realizzati, e ancor più le sue primissime opere, risalenti al periodo in cui non era ancora così famosa – sono dei ponti gettati nel futuro, sospesi nel mare (letteralmente, come ad Abu Dabi), intrecciati nei meandri di una coscienza ipercontemporanea (come il Maxxi, architettonicamente l’unico vero museo contemporaneo di Roma), fluidi e sinuosi come l’acqua (il London Aquatics Center, appunto, con quel tetto ondulante che sembra invitare a nuotare capovolti, con la faccia all’insù), mutanti come un animale (come la Serpentine Gallery a Hyde Park), o lunari come il Ferry Terminal di Salerno, che fa sembrare sospeso e quasi ombroso anche il mare Mediterraneo.

Se proprio dovessimo tentare di dire approssimativamente qualcosa sulla sua arte potremmo provare dicendo che il suo lavoro è stato una continua invenzione spaziale. Era la Visionaria assoluta (da questo punto di vista il paragone musicale forse più che con Bowie andrebbe fatto con Miles Davis), una visionaria che però è stata così forte e competente da realizzare gran parte delle sue visioni praticamente come le aveva pensate nei suoi progetti, facendo costruire cose che anche solo vent’anni fa avrebbero provocato le risate di gran parte dei docenti medi di architettura nelle nostre università, i quali, vedendo una parete timidamente curva, erano soliti rispondere cose tipo: ah, voglio vedere cosa le dirà l’imprenditore quando presenterà il progetto. Nulla era invece irrealizzabile per Hadid, e questa è davvero la stessa lezione di Miles: «Suona, e suona più forte che puoi». Aveva un stile forte e riconoscibile, direi unico, ma nello stesso tempo sempre diverso, spazialmente e formalmente. Se guardate i suoi primi lavori – alcuni dei quali capolavori ormai riconosciuti dell’architettura, pietre miliari come la sede dei vigili del fuoco del campus Vitra, ma anche alcuni degli edifici residenziali che non disdegnava di progettare – capirete che stavano ancora all’interno del decostruttivismo ma con dentro, assai più che in embrione, gli elementi che lo superavano e che si sono evoluti nel tempo nella materia spaziale che nutre i suoi progetti più recenti. Hadid era, anche, una pittrice, amava tantissimo El Lissitzky, l’avanguardia russa, il suprematismo, e questo si vede, nelle sue architetture, molto. Se proprio uno dovesse risalire a qualche suo affine il nome che verrebbe in mente è quello di Frank Gehry, per quella leggerezza solo apparente dei lavori molto complessi di Hadid, e mai manieristi (come pure è capitato a Gehry). Ma Hadid, in più, era la mente di un’architettura sensuale, quasi in grado di creare dipendenza. Tossica, in questo senso.

Era nata in Iraq, e già questo -nonostante una famiglia liberale – certo non le spianava nessuna strada. Darle della snob era, tecnicamente, ridicolo. Da ragazza si cuciva anche i vestiti da sola. Quasi ovvio – lo dico solo per la cronaca – che una donna così abbia vinto qualunque premio, tra cui Pritzker e Stirling (due volte), e fosse ormai canonizzata in vita, soprattutto nelle culture più avanzate, quelle anglosassoni, prima donna tra l’altro a ricever la medaglia d’oro del Royal Institute of British Architects.

Amava l’Italia, anche se qui quasi sempre le sue idee faticavano molto e lei se ne spazientiva, cosa volete che avesse a che fare col futuro il nostro povero paese? «In Italia tutto va per le lunghe, ho decine di cantieri aperti e non riusciamo a concludere niente. Vorrei iniziare a vedere le opere non solo sulla carta», disse una volta lei al Corriere. «Quando la gente vede cose fantastiche, la prima cosa che pensa è che non siano possibili», raccontò al Guardian. «Invece non è vero; siamo capaci di costruire cose formidabili». Per questo aveva scelto da quarant’anni di vivere a Londra, una città che rifletteva in pieno questo suo modo di pensare, e ormai la considera una londinese ad honorem. «Io non faccio piccoli edifici graziosi», diceva. Non era superbia, era una Weltanschauung. Essere «carini» è qualcosa da cui Zaha Hadid ci ha ordinato – più che insegnato – di liberarci. (FONTE: La Stampa)

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.