FISCO: Manuale del perfetto evasore

Oltre 14 miliardi portati all’estero da 13 mila italiani. Usando i servizi di una banca svizzera. Che addestrava i suoi agenti a depistare le indagini. Ecco l’atto d’accusa sul Credit Suisse

Evasione made in banca. Tutto parte da una normale verifica fiscale. La Guardia di Finanza di Milano avvia un’ispezione ordinaria sulle attività di Credit Suisse in Italia. Un controllo di routine, che punta solo a chiarire se il colosso bancario elvetico abbia pagato regolarmente le tasse sui guadagni ottenuti a casa nostra. Nella sede centrale di Milano, un palazzo di vetro e acciaio a pochi passi dal Teatro alla Scala, sembra tutto in regola: a differenza di altre multinazionali, che si sono viste accusare di eludere le tasse spostando artificiosamente i loro profitti nei paradisi fiscali, il gruppo svizzero dichiara ufficialmente di avere una «stabile organizzazione» nel nostro Paese, per cui ha sempre versato allo Stato italiano tutte le imposte dovute. Durante la verifica, però, i militari del nucleo di polizia tributaria scoprono una serie di anomalie. Che riguardano una lista di ricchissimi clienti italiani. Con casi da oltre 600 milioni di euro.

Nonostante le cifre in gioco, la documentazione della banca appare incompleta. Il problema più vistoso riguarda i rapporti con società estere che appartengono allo stesso gruppo Credit Suisse, che ha circa 45 mila dipendenti in oltre 50 nazioni. Il sospetto è che tra le varie società controllate possa aver funzionato una sorta di banca parallela: un comparto riservato, in grado di trasferire all’estero fiumi di denaro, nel più assoluto anonimato.

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Da vedere…. un po di umorismo sul fisco


I tesori in fuga dal fisco

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La Guardia di Finanza denuncia il caso al procuratore aggiunto Francesco Greco, che apre un’inchiesta penale e nel dicembre 2014 autorizza una perquisizione a tappeto. Un blitz a sorpresa, studiato per impedire che qualcuno sia tentato di dare l’allarme e mettere al sicuro i fascicoli più riservati: decine di finanzieri entrano contemporaneamente in tutti gli uffici-chiave, dove sequestrano carte, prospetti, archivi informatici, memorie dei computer portatili, email aziendali. Nelle mani dell’accusa finisce anche un documento mai visto prima. Il contenuto è tanto compromettente che tra gli inquirenti, a cui non manca il senso dell’umorismo, viene ribattezzato «il manuale del perfetto evasore-riciclatore».

Quel documento, insieme a molti altri elementi d’accusa, ora è agli atti di una maxi-inchiesta che la procura di Milano ha ormai concluso. Nei giorni scorsi la Guardia di Finanza ha consegnato ai magistrati l’atto finale: una specie di libro nero con i nomi di oltre 13 mila italiani che, attraverso le strutture di Credit Suisse, avrebbero trasferito all’estero somme enormi. Stando ai conteggi già fatti, si tratta di oltre 14 miliardi di euro. Ora i magistrati preparano il primo atto d’accusa, che potrebbe segnare uno storico spartiacque nella lotta alla grande evasione. Per la prima volta, una grande banca rischia di essere accusata direttamente di aver orchestrato un’evasione fiscale sistematica e colossale. In passato, anche nei casi più gravi, gli istituti di credito restavano ai margini dei processi: la banca era semplicemente il luogo dove gli evasori depositavano i soldi, magari con l’aiuto di singoli funzionari o consulenti esterni. Questa volta invece è la banca stessa a rischiare l’incriminazione. E a spiegare questo salto di qualità nelle indagini sono proprio i documenti sequestrati nella sede italiana di Credit Suisse, a cominciare dal “manuale”.

I consigli delle banche: come evitare le verifiche

Evitare i computer, i cellulari, i biglietti da visita. Mai restare più di tre giorni nello stesso hotel. Nessuna traccia elettronica. Ecco i suggerimenti nelle slide sequestrate dalla Finanza nella sede italiana di Credit Suisse

Si tratta di un documento informatico che, nei primi capitoli, illustra servizi e prodotti della banca: la classica serie di schermate (slide) da mostrare in riunioni aziendali o corsi di formazione per i dipendenti. Secondo gli inquirenti, è stato predisposto proprio per addestrare una rete di funzionari attivi in Italia. Il capitolo chiave è il quarto, dove la banca svizzera spiega come tenere i contatti con i clienti italiani.

La regola-base è «non avere con sé alcun documento riferibile alla banca»: neppure una lettera o un biglietto da visita. In Italia è vietato anche portare e utilizzare «computer, telefonini aziendali, archivi e documenti informatici» collegabili alla banca. Solo il cliente e nessun altro deve sapere di avere di fronte un emissario di Credit Suisse. L’aspetto più spiacevole, per gli inquirenti, è che l’anonimato vale anche per lo Stato italiano: «se fermato dalle autorità», infatti, il funzionario non deve dire per chi lavora; e dopo il controllo «non deve comunicare direttamente con la banca», ma «chiamare un familiare», avvertito in precedenza, in modo che sia lui a dare l’allarme. Il documento suggerisce perfino di crearsi un alibi: «Prepararsi uno scopo per giustificare il viaggio in Italia, ad esempio turismo, shopping, visita a un amico…». E per accreditare l’alibi, «comprare biglietti, prenotazioni, eccetera». Zittiti così i telefonini, eliminati i computer, spariti i documenti aziendali, c’è sempre il rischio che la Guardia di Finanza possa organizzare pedinamenti o appostamenti, per cui conviene spostarsi sempre: «Non restare per più di tre giorni nello stesso hotel».

Le prime notizie su questa inchiesta dei pm di Milano erano emerse un anno fa, quando l’allora procuratore Edmondo Bruti Liberati, nel bilancio di fine anno, parlò di «circa mille clienti» di Credit Suisse accusati di aver sottratto al fisco «centinaia di milioni». Quei dati erano solo la prima tappa. Dopo mesi di lavoro, ora la Guardia di Finanza ha schedato oltre 13 mila soggetti italiani (persone, ma anche società) che hanno trasferito all’estero più di 14 miliardi. Chiusa l’indagine penale sulla banca, nei prossimi mesi scatteranno le verifiche individuali: a ciascun contribuente verrà chiesto se ha dichiarato al fisco quei depositi esteri; o se li ha comunque regolarizzati con lo scudo del 2009-2010 o con la voluntary disclosure del 2015. In caso contrario, si annunciano multe pesantissime. I controlli serviranno anche a svelare eventuali frodi nella disclosure: furbetti e furboni che hanno legalizzato una parte del nero, ma continuano a nascondere altri soldi all’estero.

Dei tredicimila nomi italiani della lista di Credit Suisse, più di quattromila avrebbero utilizzato uno specifico strumento finanziario considerato fuorilegge: una polizza assicurativa «fittizia», come scrive l’Agenzia delle entrate nei primi atti d’accusa, congegnata proprio per trasferire all’estero «capitali non dichiarati al fisco italiano». Solo questi quattromila finti assicurati avrebbero nascosto all’erario, in totale, circa otto miliardi.

Dalle verifiche fiscali già concluse risulta che queste polizze, chiamate Life Portfolio International, venivano vendute da società estere del gruppo Credit Suisse Life & Pension (Cslp): la casa madre in Liechtenstein, oppure la filiale di Hamilton, capitale delle isole Bermuda. In entrambi i casi, l’Italia non doveva comparire: per questo i funzionari della banca giravano in incognito. Formalmente, i clienti firmavano un’assicurazione sulla vita, pagando normali premi assicurativi, immagazzinati in conti-contenitore intestati alla banca. In realtà, come si legge nei contratti-tipo sequestrati a Milano, il cliente restava padrone dei soldi ed era libero di riscattarli in ogni momento, anche «con prelievi in contanti».

Quindi le polizze, secondo l’accusa, erano solo «un mantello legale» per coprire gli italiani con i soldi alle Bermuda. Con due strepitosi vantaggi: prima di tutto, come spiegano gli atti d’accusa, «il mantenimento dell’anonimato», per «occultare al fisco la loro reale situazione patrimoniale». In aggiunta, i clienti di Credit Suisse evitavano anche quel minimo di tassazione della cosiddetta “euro-ritenuta”: una piccola percentuale che le banche svizzere, dal 2005, si erano impegnate a versare all’Italia in blocco, senza svelare i nomi dei correntisti. Con la polizza-mantello, invece, i soldi finiscono nel calderone alle Bermuda, i conti svizzeri risultano vuoti e i clienti non pagano neppure quella mini-tassa sugli interessi bancari. Dalle polizze-mantello, in questi mesi l’inchiesta si è allargata a tutti gli altri depositi esteri collegati a clienti italiani di Credit Suisse, fino a superare la cifra record di 14 miliardi. E ai 13 mila beneficiari già identificati potrebbero sommarsene molti altri. Alcuni conti molto ricchi, infatti, risultano intestati allo stesso gruppo bancario, che potrebbe quindi aver gestito, come nel caso delle polizze, altri depositi-calderone a disposizione di ampie cordate di clienti ancora anonimi.

A tradire il segreto bancario svizzero sono stati proprio i documenti sequestrati a Milano. Le email più riservate erano criptate, ma sono state decifrate dalla Guardia di Finanza. Nei messaggi sulle polizze-mantello, in particolare, i funzionari del Credit Suisse discutevano tra loro di «gestioni non ufficiali», «conti segretati» e intestazioni «fittizie». La sede italiana, in base al manuale, non avrebbe dovuto ricevere documenti così compromettenti. Ma il sistema è entrato in crisi con le richieste di una massa di clienti di approfittare dello scudo varato in Italia nel 2009-2010: una sanatoria a costi stracciati (5 per cento) e oltretutto anonima. Di fronte a un condono così favoloso, i banchieri di Milano hanno dovuto chiedere ai colleghi stranieri i documenti riservati, indispensabili per collegare i soldi delle polizze agli effettivi titolari.

Nelle email ora sequestrate dalla Guardia di Finanza, quei documenti vengono definiti dalla stessa banca con queste testuali parole: «Lettere di interposizione fittizia». Se l’accusa venisse confermata, sarebbe una gravissima violazione delle norme internazionali anti-riciclaggio, che impongono anche alle banche svizzere di identificare «l’effettivo titolare» dei depositi esteri. Senza accettare e tantomeno organizzare «interposizioni fittizie».

Credit Suisse, beninteso, non ha ammesso alcuna colpa, anzi ha già contattato una squadra di grandi avvocati per respingere ogni eventuale accusa. In attesa delle prime verità processuali, l’unica certezza, per ora, è che la bufera giudiziaria in arrivo da Milano ha illustri precedenti all’estero. Nel 2011 la banca elvetica ha versato 150 milioni di euro alla Germania per chiudere un’inchiesta su 1.100 citttadini tedeschi accusati di aver occultato al fisco un miliardo e 200 milioni. E nel 2014 Credit Suisse ha pagato ben 2,6 miliardi di dollari agli Stati Uniti, dichiarandosi «colpevole di aver aiutato migliaia di americani a nascondere soldi nei paradisi offshore». Eric Holder, allora ministro della Giustizia di Obama, commentò così quel maxi-patteggiamento: «Questo caso dimostra che nessuna società finanziaria, per quanto grande, è al di sopra della legge».

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.