L’uscita dall’isolamento è un problema di sicurezza sul lavoro

Le notizie da Palermo, largamente prevedibili, dicono l’ovvio: le misure estreme di distanziamento sociale assunte in queste settimane non possono essere di durata indefinita. Altrimenti al problema sanitario si somma un problema di ordine pubblico.

Misure dirette di sostegno al reddito (helicopter money) potrebbero tamponare l’emergenza, ma sono difficilissime da disegnare e implementare, con la capillarità e l’urgenza necessarie, proprio negli strati più vulnerabili della popolazione. 

Il silenzio dei governi su strategie e tempi di uscita dall’isolamento è assordante, e a questo punto insostenibile. I politici che invocano la riapertura, senza spiegare come, innescano solo uno sterile dibattito con gli epidemiologi. Utile forse ad avere visibilità, non certo ad affrontare il problema. 

Servono idee, idee e ancora idee. Provo a dire la mia, da imprenditore.

Intanto sgombriamo il tavolo da un pericoloso equivoco: nessuna strategia di uscita dall’isolamento, che si basi sull’idea tanto i giovani rischiano poco, è realistica. Primo, perché non è vero: rischio non si misura semplicemente in una probabilità minima di morire di coronavirus, ma in una elevata probabilità di prendersi una polmonite se contagiati (difficile dire quanto elevata, perché tamponi sono insufficienti, ma in Spagna sono ricoverati oltre il 25% dei casi confermati fra i 30 e i 60 anni di età).

Secondo, perché ragionare sul basso rischio delle conseguenze del contagio vuol dire accettare implicitamente l’idea del contagio, ovvero la circolazione del virus. Se c’è una cosa che abbiamo imparato in queste settimane è che se il virus circola – anche poco – il sistema sanitario salta, e quanto sia questo poco è incontrollabile. Quanto più la tenuta del sistema sanitario è in dubbio, tanto più rischiare una polmonite è da incoscienti.

Quello che non funziona nel ragionare probabilistico intorno all’epidemia, tipico degli economisti (categoria cui per formazione appartengo), è appunto questo: accettare l’idea del contagio.

Il mondo del lavoro non funziona così: in fabbrica o in cantiere si rischia ben più di una polmonite. Si rischia di cadere rovinosamente, di essere travolti, di respirare sostanze mortali, di restare fulminati. Ma non sono rischi che si accettano, sono rischi che si prevengono: tolleranza zero per gli incidenti sul lavoro.

Il che non vuol dire che non possano avvenire, che rischio statistico sia effettivamente zero, ma che i piani di sicurezza sono disegnati affinché, seguendo le regole, incidenti non avvengano quasi mai. In altre parole, la presenza di rischi non impedisce di lavorare in sicurezza.

Ecco, entriamo nell’idea che si possono scrivere, in fretta, delle regole per cui nella maggior parte dei casi si possa tornare a lavorare senza rischiare il contagio. E che con queste regole ogni contagio sia un incidente, e che se le regole sono scritte bene gli incidenti sono pochi e quindi il virus circola poco.

Implicazione tranquillizzante per gli epidemiologi: se il virus circola poco l’epidemia non si diffonde, pur se il vaccino o la terapia tardano ad arrivare. Ragionando così disinneschiamo il dibattito, politicamente impossibile, sul compromesso fra salute pubblica ed economia. E ci concentriamo su quello che conta davvero: le regole e i dispositivi di sicurezza necessari, nei vari contesti produttivi, per poter lavorare senza rischiare il contagio.

Un’obiezione valida e immediata è: se non riusciamo neanche a proteggere i medici negli ospedali, come facciamo a proteggere tutti gli altri? Il punto, e l’improrogabile cambio di marcia, è proprio qui.

Che a tre mesi dall’emersione dell’epidemia in Cina, e dopo almeno due decenni di allarmi continui sull’inevitabilità di una nuova pandemia, l’Italia e l’occidente siano in queste condizioni in termini di capacità produttiva di dispositivi di protezione individuale è un fallimento epocale. La Cina, che nel 2019 già produceva la metà delle mascherine mondiali, in meno di due mesi haquintuplicato la sua capacità produttiva.

In Italia a che punto siamo? Aspettiamo Invitalia, ahimè.

Si deve tornare a lavorare. Si può tornare a lavorare. Ma per farlo, nel giro di un paio di settimane bisogna dettagliare le regole di sicurezza sul lavoro nei vari contesti produttivi, quantificare le implicazioni in termini di dispositivi di protezione, e produrne. Tanti. Subito. Chiaro?     

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.