HACCP: Aflatossine, il killer «dimenticato»

us-department-of-agriculture_1939Le aflatossine sono sostanze chimiche generate da due specie di Aspergillus, fungo che si trova in particolare nelle aree con clima caldo e umido. Si possono riscontrare su alcuni alimenti (come mais, cereali, arachidi, frutta secca, uva, spezie, cotone) o derivati del latte, se prodotto da mucche alimentate con mangimi contaminati. Sono dotate di azione genotossica e alcune di esse hanno un potere cancerogeno particolarmente sviluppato: possono essere considerate, infatti, la causa principale dell’insorgenza di un particolare tipo di tumore del fegato, l’epatocarcinoma. Eppure, da queste sostanze i lavoratori non vengono protetti. E quelli a rischio sono oltre 120 mila, divisi in circa 20 mila aziende (agricole, alimentari e allevamenti in primis, ma anche tessili, dei trasporti o di manutenzione macchinari).

La pericolosità delle aflatossine è stata documentata ed è storicamente collegata alla possibile assunzione per via alimentare, ossia attraverso cibi contaminati. Ma l’assorbimento nell’organismo può avvenire anche attraverso la via respiratoria (dove è perfino più rapido che per la via digerente) o, addirittura, per via cutanea. Quindi è grande la sorpresa per un medico del lavoro quando, visitando un’azienda della filiera agroalimentare  (un essiccatoio di cereali, un mangimificio, un allevamento di suini), si trova costretto a constatare la carente attenzione e l’insufficiente conoscenza, oltre alla scarsa regolamentazione, dell’esposizione professionale alle aflatossine e della prevenzione dei suoi effetti nocivi.

Una disattenzione dimostrata dal limitato numero di studi epidemiologici o sperimentali su esposizione professionale, indicatori biologici ed effetti sanitari nelle pur numerose aziende che trattano direttamente o indirettamente prodotti alimentari o mangimi contaminati. Ma ancor più dall’assenza di pressoché qualsiasi normativa specifica di prevenzione dei lavoratori esposti: le aflatossine, infatti, non sono comprese nella lista dei cancerogeni predisposta dall’Unione Europea. In Italia, solo nel giugno 2014 l’Inail ha inserito l’epatocarcinoma come malattia professionale, da denunciare obbligatoriamente in caso di insorgenza nei lavoratori esposti ad aflatossina B1.

Perché questo disinteresse? Probabilmente perché le aflatossine sono cancerogeni “naturali”, ubiquitari, prodotti da muffe, cui non è semplice sottrarsi. La loro nocività forse “spaventa meno”, suscitando minori allarmi sociali rispetto ai cancerogeni “di sintesi”. Più verosimilmente è perché questo problema si è manifestato con particolare virulenza soprattutto in quei paesi (in Asia e Africa) dove ampie fasce di popolazione non possono permettersi il lusso di selezionare le sementi o i prodotti della terra, scartando o destinando ad altro impiego quelli più contaminati.

Le cose da fare sono molte, a partire dal piano normativo. Qui va rimarcata una sorprendente difficoltà: il mancato riconoscimento “ufficiale” delle aflatossine come cancerogeni professionali (art. 234 del d.lvo 81/2008). Tale situazione “non” vincola i datori di lavoro, qualora ne riscontrino la presenza nel ciclo produttivo, a trattarle come tali. Non sono quindi tenuti, ad esempio, a segnalare i dipendenti nel “registro degli esposti a cancerogeni”.

La normativa attuale offre però tre preziosi elementi da utilizzare con profitto. Il primo è l’obbligo per il datore di lavoro di “valutare tutti i rischi”, quindi anche le aflatossine, quantomeno come agente chimico nocivo, riportando poi nel Documento di valutazione anche le misure necessarie a ridurne l’impatto sulla salute. Il secondo è l’obbligo per il medico competente di fornire informazioni adeguate al livello scientifico delle conoscenze: il medico deve dire chiaramente cosa sono e cosa provocano le aflatossine, puntando alla piena consapevolezza di tutti gli attori del sistema aziendale di sicurezza. Ciò che non può entrare dalla porta (per una paradossale disattenzione normativa), può e deve rientrare dalla finestra, anche grazie al codice etico Icoh (il codice internazionale di etica per gli operatori di medicina del lavoro), richiamato dalla norma come imprescindibile elemento di indirizzo dell’attività del medico competente. Una condotta che non si uniformi a tale codice è, per legge, sanzionabile.

Il terzo elemento prezioso è l’obbligo di denuncia di eventuale epatocarcinoma per soggetti esposti ad aflatossine ai sensi dell’art. 139 del Dpr 1124/65 (in base alla nuova tabella delle malattie professionali). Quest’eventualità, seppure si possa presentare con evento raro o eccezionale, rafforza la considerazione che l’esposizione alle aflatossine va considerata come rischio professionale e contenuta il più efficacemente possibile.

Ma il piano normativo non esaurisce le cose che si possono fare. Occorre, anzitutto, fornire adeguata informazione ai soggetti interessati, soprattutto agli esposti, tesa a incrementare la consapevolezza sulla presenza del rischio, le sue fonti, le modalità di esposizione e i provvedimenti di prevenzione da adottare. È indispensabile, inoltre, misurare i livelli di polverosità e di aflatossine aerodisperse negli ambienti di lavoro: anche se non sono previsti valori limite di esposizione professionale (né a livello nazionale né internazionale), conoscerne la concentrazione nell’aria permette di avere un’idea più precisa dell’intensità del rischio nella realtà studiata, quindi di graduare e individuare le priorità negli interventi di prevenzione.

Concentrandoci specificamente sulla prevenzione, vanno messe in campo misure orientate a limitare la contaminazione dei prodotti agricoli (tecniche e strategie agronomiche da adottare nelle varie fasi di coltivazione, raccolto e conservazione dei prodotti vegetali), misure orientate a risanare le granaglie dalla muffa e conseguentemente dalle aflatossine (sono oggi disponibili, ad esempio, macchine vagliatrici in grado di separare in modo selettivo i singoli chicchi attaccati dalla muffa da quelli indenni). Occorre poi agire sull’abbattimento delle polveri contaminate prima della loro dispersione in aria (mediante aspirazioni, ventilazione generale, ricambi d’aria), sull’inalazione delle polveri durante le operazioni di mobilizzazione delle granaglie con pale meccaniche o ruspe (cabine aspirate e climatizzate), oltre ad adottare adeguati dispositivi di protezione individuale (e non la semplice mascherina).

di  Fulvio Ferri – Medico del Lavoro Spisal – Reggio Emilia

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MARIO FERRAIOLI - Nel '94 fondo lo STUDIO ALBATROS, informatico e consulente aziendale sono autore di un software gestionale per la sicurezza sul lavoro e nei cantieri sviluppato in Intelligenza Artificiale.